Sicurezza: RSPP – note a sentenza Cass. pen. 11492/2013

Sicurezza: RSPP – responsabilità
Cassazione penale n. 11492/2013 (e 2132/2010)

A cura di Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente

Si pone nel solco della sentenza Cassazione penale 2132/2010 (già indicata su questo sito e che parzialmente si riporta) la sentenza della Cassazione penale 11492/2013.

Il caso (Cass. pen. 11492/2013) coinvolge RSPP e il dirigente di una ASL.
L’addebito era l’omissione di installazione (o di fare installare) e “…di mantenere in modo adeguato l’impianto elettrico del locale adibito a terapia, di avere omesso di garantire l’adeguato isolamento tra i conduttori dell’impianto elettrico, di avere omesso di predisporre la messa a terra delle parti metalliche, di avere omesso gli opportuni accorgimenti per proteggere l’impianto da sovraccarichi, di avere omesso di predisporre in modo visibile la tabella recante le istruzioni da seguire per i soccorsi da prestare a persone eventualmente folgorate…”
Tali addebiti di colpa venivano ritenuti causalmente collegati con l’incidente: il paziente Q.O., che era sottoposto ad una terapia mediante apparecchio elettromedicale, a causa di una verificatasi sovratensione dell’impianto elettrico aveva ricevuto una forte scossa elettrica a seguito della quale era caduto dal letto, perdendo i sensi e riportando anche una lesione lacero-contusa al capo, con ricovero in ospedale per gg. 3.

La Corte evidenzia alcuni aspetti in relazione alla figura del RSPP al quale viene contestata la
1) “ negligente sottovalutazione dei rischi”, collegati alla presenza nei locali di un impianto elettrico non a norma, che provocava situazioni repentine di sovratensione, con conseguente malfunzionamento degli apparecchi medicali ed un aumento rapido della corrente erogata dagli elettrodi, idonee a generare nel paziente una sensazione dolorosa e delle contrazioni più forti che potevano generare panico (e giustificare così la contestuale caduta della parte offesa e le relative lesioni, sia pure di carattere lieve) e
2) nella imperizia dimostrata dallo stesso ad affrontare la situazione di pericolo.

Le due sentenze (Cass. penale 2132/2010 e 11492/2013) riassumono con particolare chiarezza il ruolo del RSPP e ricordano che tale figura non è immune da responsabilità; responsabilità che può concorrere con quella del datore di lavoro ed anche divenire esclusiva.
La Cassazione ribadisce i caratteri tipici RSPP ovvero:
a) non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica e
b) “..lo stesso opera … quale “consulente” in tale materia del datore di lavoro..”
c) il datore di lavoro “..è (e rimane) direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio.

DELEGA DI FUNZIONI
Entrambe le sentenze delineano la differenza tra il ruolo di RSPP e la delega di funzioni.
“…. la “designazione” di RSPP che il datore di lavoro è tenuto a fare a norma del cit. Decreto, art. 31 (individuandolo, ai sensi del successivo art. 32, tra persone i cui requisiti siano “adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative”), non equivale a “delega di funzioni” utile ai fini dell’esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perchè gli consentirebbe di “trasferire” ad altri – il delegato – la posizione di garanzia che questi ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori. Posizione di garanzia che, come è noto, compete al datore di lavoro in quanto ex lege onerato dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa…”
Dunque il datore di lavoro con la nomina del RSPP non delega, non trasferisce l’obbligo del rispetto della normativa antinfortunistica.
RSPP
a) “..è privo di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale..”,
b) “..spettandogli solo di prestare “ausilio” al datore di lavoro nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza nonchè di informazione e formazione dei lavoratori (cfr. art. 33 del decreto cit.).
Il datore di lavoro, quindi,
a) è il titolare della posizione di garanzia…,
b) ha l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi (non delegabile) e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, appunto in collaborazione con il RSPP
c) solo di datore di lavoro risponde della omessa valutazione del rischio

RESPONSABILITA’ CONCORRENTE
Ed invero così si esprime anche la Cass. penale 11492/2013 :
“…Ne consegue che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione qualora, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà insieme a questi dell’evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo (Sezione 4, 15 luglio 2010, Scagliarini).
Ciò perchè, in tale evenienza, l’omissione colposa al potere-dovere di segnalazione in capo al RSPP, impedendo l’attivazione da parte dei soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento, finirebbe con il costituire (con)causa dell’evento dannoso verificatosi in ragione della mancata rimozione della condizione di rischio: con la conseguenza, quindi, che, ……ben potrebbe rectius, dovrebbe essere chiamato a rispondere insieme a questi in virtù del combinato disposto dell’art. 113 c.p. , e art. 41 c.p. , comma 1 dell’evento dannoso derivatone.
La Cassazione dopo aver delineato il rapporto RSPP e datore di lavoro precisa lo spazio di responsabilità “concorrente” del RSPP.

Il RSPP “…che pure è privo dei poteri decisionali e di spesa (e quindi non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio), può essere ritenuto (cor)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione.

Ne consegue che il RSPP qualora, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà insieme a questi dell’evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo.

Dunque la
a) “mancata o erronea individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e
b) la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché
c) la mancata informazione e formazione dei lavoratori
può integrare una omissione rilevante e attribuire in concorso la responsabilità anche al RSPP.
IL RSPP ha il potere e dovere di segnalazione dei Rischi; l’omissione colposo di tali segnalazioni impedisce “…l’attivazione da parte dei soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento…” e finisce per “…costituire (con)causa dell’evento dannoso verificatosi in ragione della mancata rimozione della condizione di rischio.

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Delegato ambientale e responsabilità

Delegato ambientale e responsabilità: deposito incontrollato rifiuti

Cass. pen. Sez. III, n. 43773/2012

A cura di Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente


La sentenza precisa il rapporto tra
a) il legale rappresentante della società ed
b) il proprio delegato ambientale.

Spesso il legale rappresentante ritiene di escludere la propria responsabilità con il mero conferimento della delega a soggetto idoneo.
Vero è che il Giudice è chiamato a valutare la responsabilità del legale rappresentante con riferimento al concreto verificarsi degli eventi e al suo contributo causale a prescindere dalla delega conferita.

Nel caso in esame invero, pur esistendo la delega ambientale che coinvolge il delegato, il Giudice ha verificato che il legale rappresentante era a conoscenza dei fatti e nulla ha posto in essere per evitare il reato.

In particolare:
La sentenza coinvolge due soggetti
1) l’amministratore unico di una società
2) il responsbaile in materia ambientale della stessa società
quali colpevoli, secondo il Tribunale di primo grado, ex artt. 192 comma 1 e 256 Dlgs. 152/2006 “per avere effettuato, in concorso fra di loro e nelle rispettive qualità ….., depositi incontrollati di rifiuti non pericolosi …..e li condannava alla pena di Euro 5.000,00 di ammenda ciascuno.

La difesa degli imputati, pur articolata, è di interesse nella parte in cui sostenevano che la “ …decisione ..era contraddittoria poichè affermava la responsabilità penale sia di ….rappresentante legale ….sia di…..responsabile in materia ambientale della predetta ditta. Invero – secondo la difesa dei ricorrenti – la responsabilità dell’uno escludeva quella dell’altro…”

La Cassazione respinge le difese.

Il Giudice di primo grado invero aveva accertato con “…un esame analitico ed esaustivo delle risultanze processuali…” che il rappresentante legale e il procuratore speciale responsabile in materia ambientale della ditta – avevano effettuato un deposito incontrollato di rifiuti non pericolosi, quali:
a) terre esauste di decolorazione per un quantitativo pari a circa 504 mc;
b) sansa esausta.

Trattavasi di rifiuti depositati a tempo indeterminato, senza un idoneo programma di smaltimento .
Ricorrevano pertanto nella fattispecie in esame gli elementi costitutivi del reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 2, come contestato ai capi A) e C) della rubrica.
Sul punto della concorrrente responsabilità la cassazione precisa che sussiste la responsabilità penale di entrambi in quanto il legale rappresentante era a “…. conoscenza che il deposito dei rifiuti non pericolosi si protraeva da lungo tempo, senza che fosse stato predisposto un idoneo programma di smaltimento di rifiuti medesimi – non aveva posto in esser alcun intervento operativo ed efficace onde porre termine alla situazione illecita creata all’interno dell’azienda gestita dallo stesso ……

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Sicurezza: RSPP – responsabilità

Sicurezza: RSPP – responsabilità concorrente

Cassazione penale n. 2132/2010
A cura di Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente
La sentenza riassume con particolare chiarezza il ruolo del RSPP e ricorda che tale figura non è immune da responsabilità; responsabilità che può concorrere con quella del datore di lavoro ed anche divenire esclusiva.
Si omette il fatto che ha causato la condanna del RSPP, in questa sede, rinviando alla lettura della sentenza.
Ciò che rileva è il principio posto dalla Cassazione, per quanto opinabile, che con chiarezza declina l’ambito di responsabilità del RSPP e precisa la distinzione con la “delega di funzioni” .
La Cassazione afferma la responsabilità del RSPP per il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno del lavoratore in concorso con il datore di lavoro.
Secondo la Corte la responsabilità del RSPP, con riferimento al caso in questione, risiede nella
a) negligente sottovalutazione dei rischi
b)imperizia dimostrata dallo stesso attraverso l’indicazione nel documento di valutazione dei rischi di rimedi del tutto inidonei (paletti di recinzione e catenelle di sicurezza da apporre alla fosse quando non vi era attività lavorativa) ad affrontare la situazione di pericolo.
Da questa premesse in fatto la sentenza fa discendere la responsabilità del RSPP che nella sua qualità “…era tenuto
a) non solo a segnalare l’effettività del rischio ma anche
b) a proporre concreti ed idonei sistemi di prevenzione e protezione per evitare gli eventi, come quello verificatosi.”
La Cassazione ribadisce i caratteri tipici RSPP ovvero:
a) non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica e
b) “..lo stesso opera … quale “consulente” in tale materia del datore di lavoro..”
c) il datore di lavoro “..è (e rimane) direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio.
DELEGA DI FUNZIONI
L’inciso interessante riguarda però la distinzione del ruolo di RSPP e la delega di funzioni.
La Cassazione precisa con chiarezza che “…. la “designazione” di RSPP che il datore di lavoro è tenuto a fare a norma del cit. Decreto, art. 31 (individuandolo, ai sensi del successivo art. 32, tra persone i cui requisiti siano “adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative”), non equivale a “delega di funzioni” utile ai fini dell’esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perchè gli consentirebbe di “trasferire” ad altri – il delegato – la posizione di garanzia che questi ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori. Posizione di garanzia che, come è noto, compete al datore di lavoro in quanto ex lege onerato dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa…”
Dunque il datore di lavoro con la nomina del RSPP non delega, non trasferisce l’obbligo del rispetto della normativa antinfortunistica.
RSPP
a) “..è privo di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale..”,
b) “..spettandogli solo di prestare “ausilio” al datore di lavoro nella individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nella elaborazione delle procedure di sicurezza nonchè di informazione e formazione dei lavoratori (cfr. art. 33 del decreto cit.).
Il datore di lavoro, quindi,
a) è il titolare della posizione di garanzia…,
b) ha l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi (non delegabile) e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, appunto in collaborazione con il RSPP
c) solo di datore di lavoro risponde della omessa valutazione del rischio
RESPONSABILITA’ CONCORRENTE
La Cassazione dopo aver delineato il rapporto RSPP e datore di lavoro precisa lo spazio di responsabilità “concorrente” del RSPP.
L’RSPP “…che pure è privo dei poteri decisionali e di spesa (e quindi non può direttamente intervenire per rimuovere le situazioni di rischio), può essere ritenuto (cor)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione.
Ne consegue che il RSPP qualora, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l’adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà insieme a questi dell’evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo.
Dunque la
a) “mancata o erronea individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e
b) la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché
c) la mancata informazione e formazione dei lavoratori
può integrare una omissione rilevante e attribuire in concorso la responsabilità anche al RSPP.
IL RSPP ha il potere e dovere di segnalazione dei Rischi; l’omissione colposo di tali segnalazioni impedisce “…l’attivazione da parte dei soggetti muniti delle necessarie possibilità di intervento…” e finisce per “…costituire (con)causa dell’evento dannoso verificatosi in ragione della mancata rimozione della condizione di rischio.

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Conferenza servizi: termine

Conferenza servizi: termine
TAR Torino n. 1291/2012
Autorizzazione unica ex art. 12 Dlgs. 387/2003
A cura di Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente
Il TAR di Torino affronta questione non pacifica.
La sentenza presenta numerosi spunti di riflessione e precisa anche in merito ai tempi concessi dal legislatore per la adozione del provvedimento finale.
Il Caso deciso dal TAR prende origine dalla richiesta di una società alla Provincia di Alessandria di autorizzazione ex art. 12 D.lgs 387/03 all’installazione e all’esercizio di un impianto di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili da 195 Kwe, alimentato con biocombustibili forestali e agricoli.
Il procedimento, nel corso del quale si è riunita per tre volte la conferenza dei servizi si è concluso con la determina del 25.11.11.
La determina della Provincia di Alessandria autorizzava l’impianto in questione, subordinando l’assenso:
A) all’espressione del parere definitivo della Soprintendenza per i Beni Archeologici e all’osservanza delle prescrizioni con esso impartite;
B) al rispetto delle indicazioni contenute nel parere favorevole del Comune di Carrosio,
C) all’osservanza di ulteriori prescrizioni tecniche dettagliate in appositi allegati.
La determina veniva impugnata in via principale con varie censure.
Una delle censure, oggetto di questo breve focus, riguarda la:
violazione dei termini massimi di svolgimento della conferenza dei servizi – previsti dall’art. 14 ter L. 241/90 e 14.11 dell’allegato 1 del D.M. 10.09.10 – essendo stati sospesi per tre volte i termini per la presentazione delle integrazioni richieste alle amministrazioni, nonostante le disposizioni citate consentano la richiesta di documentazione o di chiarimenti in un’unica soluzione.
La questione relativa alle lungaggini della conferenza di servizi e’ controversa e non pacifica.
La sentenza sembra un po’ forzare la lettera della norma al fine di giustificare l’azione amministrativa
ponendosi però nel solco di un orientamento già presente nella giurisprudenza e ad oggi non più unitariamente condiviso.
TERMINI
Il TAR disserta sulla doglianza relativa alla tardività e violazione dei termini.
Il TAR osserva invero che “…solo in sede di prima conferenza dei servizi sono state richieste integrazioni alle amministrazioni partecipanti, mentre nelle altre due conferenze i termini del procedimento sono stati sospesi per 60 giorni per consentire ulteriori integrazioni spontanee da parte delle amministrazioni, sulla base delle osservazioni emerse in sede collegiale…”
-Già questo rilievo desta perplessità perché sembra porre differenza tra le integrazioni spontanee e quelle imposte; quasi che le integrazioni spontanee non abbiano valore di sospensione.
Vero e’ che il TAR richiama proprio gli articoli di riferimento ( che sembrano deporre in senso contrario) ovvero “…Sul punto vengono in rilievo
-l’art. 14 ter comma 8, L. 241/90 ( “in sede di conferenza di servizi possono essere richiesti, per una sola volta, ai proponenti dell’istanza o ai progettisti chiarimenti o ulteriore documentazione. Se questi ultimi non sono forniti in detta sede, entro i successivi trenta giorni, si procede all’esame del provvedimento”), e
-l’art. 14.11 del D.M. 10.09.2010 (“nel rispetto del principio di non aggravamento del procedimento di cui all’articolo 1, comma 2, della legge n. 241 del 1990, l’ulteriore documentazione o i chiarimenti ritenuti necessari per la valutazione dell’intervento sono richiesti, anche su impulso delle altre amministrazioni interessate, dall’Amministrazione procedente in un’unica soluzione ed entro 90 giorni dall’avvio del procedimento. Se il proponente non fornisce la documentazione integrativa entro i successivi 30 giorni, salvo proroga per un massimo di ulteriori 30 giorni concessa a fronte di comprovate esigenze tecniche, si procede all’esame del progetto sulla base degli elementi disponibili”).
TERMINE ACCELERATORIO
Il richiamo normativo però’ non risolve la questione nel senso voluto dal TAR che subito conclude: “….In mancanza delle indispensabili specificazioni da parte della norma in ordine agli effetti ed alle conseguenze dell’inerzia, il Collegio ritiene che si tratti di termini acceleratori, il cui superamento non priva l’ente procedente del potere di adottare il provvedimento finale, bensì abilita il soggetto richiedente a sollecitare, anche giudizialmente, la conclusione del procedimento.
Il TAR dunque torna a quell’orientamento che ritiene non essenziale e non perentorio il termine del procedimento per l’adozione del provvedimento finale in seno alla conferenza dei servizi.
Continua il TAR:
“Nello stesso senso è un precedente di questo Tribunale secondo il quale la norma che impone che le integrazioni documentali siano richieste in un’unica soluzione “non correla alcun effetto preclusivo all’eventuale reiterazione delle richieste medesime”.
PRINCIPIO DI NON AGGRAVAMENTO DEL PROCEDIMENTO
Di interesse il prosieguo del ragionamento del TAR che apre ad una interpretazione su cui riflettere.
Il TAR dopo avere asserito che la violazione del termine in se’ non comporta la illegittimità del provvedimento in quanto l’amministrazione può utilmente provvedere anche in un secondo momento precisa che semmai:
“… potendo l’illegittimità scaturire unicamente dalla violazione del principio di non aggravamento del procedimento che sottende la disposizione in parola, per cui la violazione va accertata non tanto in base alla formale presenza di due richieste di chiarimenti da parte dell’amministrazione, quanto accertando se ciò si sia tradotto in una protrazione ingiustificata della procedura” …
La illegittimità discende dalla protrazione ingiustificata della procedura.
Nulla di più discrezionale, dunque.
Il TAR procede a verificare se le ulteriori richieste di documentazione – che sono frutto delle molteplici conferenze di servizi – concretino la ingiustificata protrazione del procedimento e dunque l’ aggravio dello stesso.
Continua il TAR:
“…D’altra parte, l’art. 14 ter comma 8, L. 241/90 tanto prevede al chiaro fine di non aggravare il procedimento, nel rispetto del principio di cui all’art. 1, co. 2, della stessa legge ed in favore del soggetto proponente; nel caso di specie le due integrazioni (successive alla prima conferenza) sono state originate da specifiche richieste delle Amministrazioni coinvolte nel procedimento, a cui la Provincia ha corrisposto, in tal modo consentendo di approfondire l’esame del progetto e di migliorarne le caratteristiche tecniche….”
E’ palese che questa motivazione – che giustifica l’indiscriminato dilatarsi dei tempi per la conclusione del procedimento a discrezione della amministrazione – e’ facile pretesto, stante la genericità, per ogni amministrazione .
RIPENSAMENTO
Ed invero il TAR sembra accorgersi della debolezza dell’assunto e chiude il proprio ragionamento attribuendo invero ad altra motivazione la cesura della doglianza.
Conclude il TAR:
“…Resta da rilevare che, se la norma in esame è stata predisposta dal Legislatore nell’interesse del soggetto che ha presentato l’istanza oggetto di delibazione in seno alla conferenza di servizi – in quanto volta a consentire la rapida conclusione del procedimento e la più celere evasione dell’istanza medesima – legittimato a dolersi della sua violazione è unicamente il soggetto promotore del progetto, discendendone che la censura in tal modo spiegata dai ricorrenti, che rivestono il ruolo di parte controinteressata sostanziale, si configura inammissibile per carenza di legittimazione (cfr. T.A.R. Piemonte, Sez. I, 25 settembre 2009 n. 2292).
La doglianza sulla violazione del termine di conclusione del procedimento dunque non viene accolta solo perché è stata sollevata da soggetto non legittimato ….e non perché adottata nei termini.
Giova anche evidenziare che il TAR richiama la ratio della stessa conferenza dei servizi che stride con quanto precisato dalla stessa sentenza “…in quanto volta a consentire la rapida conclusione del procedimento e la più celere evasione dell’istanza medesima…”.
La dissertazione sul termine pare dunque inutile ed anzi foriera di interpretazioni che avvallano la lesione della rapida conclusione del procedimento, come ricordato dallo stesso TAR e come ribadito da altre sentenze.

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Conferenza Servizi: il Comune può impugnare la decisione finale?

Conferenza Servizi Istruttoria
Il Comune dissenziente può impugnare il provvedimento decisorio?
T.A.R. Liguria Genova 23-05-2012, n. 723
A cura di Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente
La Conferenza di Servizi Istruttoria permette la partecipazione delle amministrazioni interessate ai soli fini “istruttori” e la decisione finale è rimessa sempre alla amministrazione procedente (art. 14 comma 1 L. 241/90).
Recita l’art. 14 comma 1: “qualora sia opporuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione può indire una conferenza di serivizi”.
Conferenza istruttoria dunque come potere discrezionale della amministrazione.
Ebbene la sentenza TAR Liguria precisa la posizione degli enti partecipanti alla Conferenza rispetto alla decisione finale della Amministrazione (Provincia nel caso in esame ) ed in riferimento alla realizzazione da parte di una società di un centro di raccolta e demolizione di veicoli a motore
Ed invero il Comune impugnava le determinazioni assunte dalla Conferenza di servizi, indetta dalla Provincia di Genova che aveva espresso parere favorevole sull’approvazione del progetto per la realizzazione del centro di raccolta e demolizione di veicoli a motore.
Il parere positivo era intervenuto nonostante il ricorrente Comune di Genova si fosse espresso in senso contrario.
In particolare, il Comune di Genova aveva espresso parere negativo per quanto riguardava gli aspetti urbanistici e per aspetti progettuali inerenti all’inquinamento idrico e acustico.
In seguito aveva ribadito la negatività del parere in sede di Conferenza di servizi. La posizione negativa del Comune veniva motivata con il contrasto del previsto impianto con le prescrizioni urbanistiche comunali previste nella zona in questione ed, in particolare, con la futura destinazione residenziale dell’area interessata (così classificata nel PRG all’epoca adottato ed in seguito approvato come PUC).
Il Comune dissenziente, può impugnare il provvedimento finale della Provincia?
Il Comune dissenziente, pur avendo preso parte alla Conferenza di servizi, ben può impugnarne l’esito finale.
Recita la sentenza TAR:
“In via generale, sia pure in presenza di giurisprudenza non sempre univoca, il Collegio ritiene che il fatto di partecipare alla Conferenza di servizi non comporti per un’Amministrazione l’estinzione del potere di cura degli interessi dei quale l’Amministrazione stessa è affidataria e, pertanto, nessuna preclusione subisce quest’ultima rispetto alla possibilità di far valere le illegittimità, sia formali che sostanziali, inerenti al provvedimento assunto all’esito della Conferenza di servizi.
Nel caso di specie, peraltro, la conferenza di servizi aveva natura istruttoria e, quindi, si presentava quale semplice atto istruttorio dell’iter di formazione della determinazione finale della Provincia.
La determinazione finale, pertanto, è unicamente imputabile alla Provincia e non si può quindi, neanche in ipotesi, sostenere che il Comune abbia concorso in senso tecnico a formare la volontà provvedimentale e dovesse subire le preclusioni rispetto all’impugnativa in sede giurisdizionale del provvedimento finale.
Il Comune risulta, quindi, legittimato attivo in base ai radicati principi secondo cui allo stesso quale ente esponenziale della comunità municipale spetta la legittimazione ad agire in giudizio a tutela degli interessi della stessa comunità e che un soggetto che partecipa ad un procedimento amministrativo può impugnare il provvedimento conclusivo di cui assuma la lesività (cfr. Cons. St., Sez. V, 2.3.1999, n. 217).
Al riguardo, è stato puntualizzato a livello giurisprudenziale che la Conferenza di servizi in materia di autorizzazione alla realizzazione di impianti di smaltimento e recupero rifiuti non è il luogo giuridico in cui sono assunte le decisioni finali, ma solo la sede ove tutti gli interessi pubblici, rilevanti in un certo ambito, sono palesati e confrontati giacché quello prefigurato dall’art. 27 del D.Lgs. n. 22 del 1997, costituisce uno strumento procedimentale di emersione e comparazione d’interessi pubblici, destinati a sintetizzarsi nel provvedimento finale, e non un vero e proprio organo collegiale ove le singole manifestazioni di volontà si fondono in una; pertanto, la partecipazione alla conferenza indetta dalla Provincia per esaminare l’istanza del privato non comporta per il Comune la consumazione del suo potere in detta sede, conservando questo la facoltà di opporsi giudizialmente a decisioni ritenute lesive degli interessi, di cui è portatore, potendo far valere, sia la sua qualità di ente esponenziale dei residenti, sia quella di titolare del potere di pianificazione urbanistica, su cui incide il provvedimento di localizzazione adottato
Conformemente a quanto anzidetto la giurisprudenza amministrativa si è espressa nel senso che al Comune va riconosciuta la legittimazione ad impugnare il provvedimento di approvazione di una discarica
1) sia per la qualità di ente esponenziale degli interessi dei residenti che potrebbero subire danni dalla scelta compiuta dall’autorità competente nell’individuazione delle aree per l’attivazione dell’impianto di discarica,
2) sia per la qualità di titolare del potere di pianificazione urbanistica, su cui certamente incide la collocazione dell’impianto medesimo
Il Collegio segnala, infine, che, parlando in generale, le decisioni che escludono la legittimazione ad impugnare l’esito della Conferenza di servizi per gli enti che hanno partecipato alla conferenza stessa, da un lato limitano l’impugnativa ai vizi procedurali e, dall’altro, fanno leva sulla necessità di non alterare indebitamente il funzionamento degli organi collegiali, operativi secondo i principi disciplinanti il formarsi di maggioranze e minoranze.
Nel caso di Conferenza di servizi istruttoria, però, come quella del caso di specie, non viene in rilievo alcun meccanismo tipico del funzionamento degli organi collegiali.

adminConferenza Servizi: il Comune può impugnare la decisione finale?
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Trasporto in conto terzi: Circolare 1463/2012 AGA

Trasporto in conto terzi: Circolare 1463/2012 Albo gestori
a cura di Cinzia Silvestri e Dario Giardi – Studio Legale Ambiente
Con circolare prot. n. 1463 del 30 novembre 2012, il Comitato nazionale dell’Albo Gestori Ambientali, ha accolto il ricorso proposto da un’impresa contro la decisione della competente Sezione regionale di non inserire nell’iscrizione all’Albo, ai sensi dell’art. 212, comma 8, del D.Lgs 152/2006, un veicolo immatricolato ad uso di terzi. L’impresa ricorrente risultava essere proprietaria di detto veicolo adibito ad uso di terzi ed essere in possesso del relativo titolo abilitativo.
Con tale pronuncia il Comitato nazionale ha inteso uniformarsi, modificando il proprio orientamento, alla sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. II, n.13725 del 30 maggio 2012, depositata il 31 luglio 2012) che ha stabilito che per l’esercizio dei due tipi di attività (in conto proprio e per conto terzi) sono effettivamente previsti, dagli articoli 31 ss, della legge 6 giugno 1974, n.298, provvedimenti abilitativi distinti. Tuttavia, come ha osservato il Giudice, quello relativo al trasporto per conto di terzi ha contenuto più ampio ed è subordinato a condizioni e requisiti più rigorosi. Può quindi essere considerato senz’altro comprensivo anche del trasporto per conto proprio, che rappresenta un minus, sicché risulta ultroneo pretendere che chi ha già ottenuto il titolo “maggiore” si debba munire anche dell’altro, per poter svolgere un’attività che l’articolo 31 lett.b) della legge citata, definisce come “complementare o accessoria nel quadro dell’attività principale”.
Vai al breve commento alla sentenza della Cassazione 13725/2012 su questo sito.

adminTrasporto in conto terzi: Circolare 1463/2012 AGA
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Sindaco: responsabilità' urbanistica?

Sindaco: dovere di vigilanza urbanistica?
Cass. penale n. 36571/2011
A cura di Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente
La sentenza ha il merito di segnare il confine tra la culpa in vigilando ed il comportamento omissivo in concorso.
Al Sindaco veniva contestato di aver omesso di impedire l’esecuzione di interventi modificativi dello stato dei luoghi connessi con le attività di coltivazione della cava.
Ebbene, quando la condotta si sostanzia nell’omesso impedimento la contestazione ricade nella culpa in vigilando che deve trovare precisa indicazione e previsione nella legge.
Ne caso in esame il Dlgs. 267/2000 art. 107 comma 3 non impone al Sindaco alcun obbligo di vigilanza edilizia e paesaggistico ambientale.
Il Sindaco dunque veniva liberato dall’imputazione in quanto non aveva commesso il fatto.
Così si esprime la sentenza :
“….Il D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107, comma 3, lett. g), dispone testualmente che sono attribuiti ai dirigenti “tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonchè i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell’abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale”. Se ne deve desumere l’insussistenza in capo al sindaco di un generale dovere di vigilanza sulle attività che incidano sull’assetto urbanistico e paesaggistico del territorio.
Il Tribunale – pur apparentemente recependo tale interpretazione della disposizione in questione – afferma che all’imputato “non risulta essere stata contestata la sola culpa in vigilando, ma anche l’aver tenuto condotte omissive, che avrebbero concorso alla commissione, con gli altri, del reato oggetto del procedimento”.
Dalla lettura dell’imputazione emerge, però, che l’unica condotta contestata all’imputato è quella di avere consentito, “omettendo di impedirlo, che venissero eseguiti (…) interventi modificativi dello stato dei luoghi connessi con le attività di coltivazione di cava”.
Tale condotta è interamente riconducibile alla culpa in vigilando di cui sopra e non è, perciò, penalmente ascrivibile all’imputato, non sussistendo in capo a questo – in base al D.Lgs. n. 267 del 2000, richiamato art. 107, comma 3, lett. g), – un generale obbligo di vigilanza.
4. – Occorre pertanto procedere all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perchè l’imputato non ha commesso il fatto….”*
*Sentenza tratta da Leggiditalia

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Legale rappresentante: responsabilità ambientale

Delegato ambientale: Cassazione penale n. 2409/2012
A cura di Cinzia Silvestri
La sentenza della Cassazione conferma la responsabilità, in concorso, dell’ amministratore unico della società e del procuratore speciale e responsabile in materia ambientale della società per aver effettuato depositi incontrollati di rifiuti non pericolosi ( ai sensi dell’ art. 256 comma 2 Dlgs. n. 152/2006).
La sentenza accerta,nel fatto, l’ esistenza concreta della condotta di concorso.
Non attribuisce responsabilità sulla base della esistenza mera della qualità o carica ricoperta!
Il ” delegato ambientale”, in forza della delega attribuita, risponde dell ‘ illecito.
Qualche dubbio invece di responsabilità sulla posizione del legale rappresentante o amministratore unico che si difendeva in giudizio rappresentando la delega conferita.
Vero e’ che la Cassazione, premessa la validità della delega conferita, ha verificato la conoscenza in capo al legale rappresentante del deposito dei rifiuti non pericolosi da tempo ” senza che fosse predisposto un idoneo programma di smaltimento di rifiuti …non aveva posto in essere alcun intervento operativo ed efficace onde porre termine alla situazione illecita creata….”.
Il legale rappresentante risponde solo in quanto ha concretamente omesso, essendone a conoscenza, di attuare il comportamento idoneo a porre termine alla condotta illecita.
Questo caso non esenta da responsabilità il legale rappresentante solo previo accertamento della concreta ed attiva/omissiva responsabilità.

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Direttore lavori: obbligo di vigilanza ambientale?

Direttore dei lavori: obbligo di vigilanza “ambientale”?
Cassazione penale n. 44457/2009
A cura di Studio Legale Ambiente – Cinzia Silvestri
Sempre più spesso accade che la responsabilità in materia ambientale venga attribuita per il solo fatto di rivestire una certa mansione, carica, ruolo; e ciò a prescindere dalla individuazione delle precise responsabilità.
L’obbligo di vigilanza deve essere previsto da una norma di legge, da un contratto…
Se l’obbligo di vigilanza non trova fondamento non si può imputare ad un soggetto la responsabilità solo in quanto riveste la qualifica, ad esempio, di “Direttore dei lavori di cantiere” (o di legale rappresentante, dipendente, o altra mansione).
La responsbailità ambientale dovrà trovare prova nelle regole del processo penale e dunque andrà verificata la effettiva partecipazione del “direttore dei lavori” all’illecito, il concreto apporto causale all’evento, la partecipazione diretta, nel caso di specie, al deposito del materiale.
****
Ebbene.
Il Tribunale dell’ Aquila condannava il titolare della ditta ed il direttore dei lavori di cantiere, ciascuno per il reato di cui all’art. 184, 192, 256 comma 1 lett. a) per avere, a seguito della costruzione del capannone, “…illecitamente abbandonato ovvero depositato in modo incontrollato materiale di rifiuto non pericoloso (inerti da demolizione, materiali plastici e materiali metallici) nell’area del cantiere.
Il Tribunale riteneva responsabile proprio il DIRETTORE DEI LAVORI – nella sua qualità – quale soggetto che organizzava e dirigeva il lavoro del cantiere.
Il direttore dei lavori proponeva ricorso per cassazione rilevando che :
1) non veniva contestato il concorso nell’illecito assieme al titolare dlla ditta
2) veniva contestata una condotta autonoma per la sua qualità di direttore lavori.
3) nessuna norma nella specifica disciplina dei reati ambientali attribuisce particolari responsabilità a carico del direttore dei lavori di un cantiere eletto a sito abusivo di discarica.
4) Inesistenza di obbligo di vigilanza o di denuncia a carico del Direttore lavori
Il direttore dei lavori rilevava che il DPR 380/2001 art. 29 comma 1 individua i compiti e le responsabilità a lui dedicate.
Cita la Cassazione “…..Al di fuori delle espresse previsioni dell’art.29 cit. il direttore dei lavori non ha alcun obbligo di vigilanza in relazione a quanto accade nel cantiere in cui viene realizzata l’opera. In particolare, la normativa in materia di rifiuti non attribuisce specifiche responsabilità al direttore dei lavori.
E’ indiscutibile, quindi, che in relazione a tale normativa si applichino le regole ordinarie in tema di responsabilità per le contravvenzioni (come nel caso di specie) e di concorso nel reato.
Il Tribunale aveva affermato la responsabilità del direttore dei lavori per il deposito incontrollato proprio e solo per la sua “qualità di direttore dei lavori, quindi soggetto che organizzava e dirigeva il lavoro del cantiere tra cui appunto la fase del trasporto in loco e successiva utilizzazione del materiale di risulta”.
Prosegue la Corte: “ La responsabilità viene fatta discendere, pertanto, dalla mera qualità di direttore dei lavori, senza tener conto che il direttore dei lavori ….non aveva alcun obbligo di vigilanza e di denuncia in relazione alla violazione della normativa sui rifiuti.
Continua la Corte: “…Il Tribunale avrebbe….. dovuto accertare se dagli atti emergesse una condotta dell’imputato rivelatrice di una partecipazione diretta al deposito del materiale, oppure la sua presenza attiva durante la fase di abbandono, ovvero ancora la consapevole partecipazione al reimpiego ed utilizzazione del materiale di risulta.

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Energia/Eolico: riduzione volumetrica

 Eolico: La riduzione volumetrica dell’impianto richiede “autorizzazione”?
DM 10.5.2010 par. 11.5 – DLGS. n.  28/2011
Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente
L’ ” Impatto Ambientale delle energie alternative/rinnovabili” e’ il tema del convegno organizzato da Studio Legale Ambiente, che si terrà ad Ecomondo – Sabato, 10 novembre 2012 alle 9.00/13.00 a Rimini -Ecomondo – Key Energy.
Il Convegno cercherà con taglio pratico di rispondere a domande con l’ausilio della recente giurisprudenza. Il TAR Lecce 281/2012 risponde alla domanda relativa alla DIA in caso di riduzione volumetrica dell’impianto.
In particolare.
Il Comune negava l’autorizzazione (e la richiesta) di sostituire l’aerogeneratore già previsto con la DIA con un altro di dimensioni più ridotte.
I ricorrente rilevava che l’aerogeneratore da sostituire recava le medesime caratteristiche tecniche di quello assentito con DIA e dunque non influiva “..sul circostante assetto territoriale, e non necessiterebbe pertanto di nuova autorizzazione..”.
Il TAR ritiene il motivo fondato:
Dall’analisi comparata dei dati tecnici dei due aerogeneratori emerge che la potenza elettrica, l’altezza, il diametro del secondo generatore (che dovrebbe sostituire il primo) è decisamente INFERIORE al primo.:
“Emerge … che il nuovo impianto presenta le medesime caratteristiche generali del primo, assentito con DIA … ma è di potenza più ridotta. Trattasi, in altri termini, di una versione riconducibile al medesimo genus di quella originaria, ma di dimensioni più modeste”.
Tanto premesso, rileva il Collegio che, ai sensi del par. 11.5 del D.M. 10 settembre 2010, : “sono soggette a DIA le opere di rifacimento realizzate sugli impianti fotovoltaici ed eolici esistenti che non comportano variazioni delle dimensioni fisiche degli apparecchi, della volumetria delle strutture e dell’area destinata ad ospitare gli impianti stessi, né delle opere connesse”.
Alla luce di tale previsione normativa, è evidente che, così come sono soggette a DIA – e non ad autorizzazione paesaggistica, come invece sostenuto dalla resistente – le opere di rifacimento che non determinano variazioni delle dimensioni fisiche dell’impianto originariamente assentito, a maggior ragione vi sono soggette quelle opere che, al pari di quella in esame, si concretano in una semplice diminuzione di volumetria rispetto a quella originaria.
E poiché la ricorrente ha comunicato all’amministrazione apposita DIA …. nessun altro adempimento doveva ritenersi, nel caso di specie, giuridicamente necessario.
….”Se per un verso si deve considerare che l’aspetto esteriore dell’impianto eolico viene a mutare,infatti,si deve considerare che tale mutamento,per le ridotte dimensioni della nuova struttura e per l’aspetto standardizzato delle pale eoliche,non richiede una nuova valutazione di compatibilità paesaggistica,costituendo la precedente valutazione,figurativamente, un cerchio concentrico rispetto a quello che corrisponde alla nuova pala,di dimensioni maggiori rispetto a quest’ultimo…”

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Energia: limiti alle Regioni

Energia: limiti alle Regioni – prevalenza del diritto Comunitario
Consiglio di Stato 10 settembre 2012 n. 4768
A cura di Cinzia Silvestri-Studio Legale Ambiente
L’ ” Impatto Ambientale delle energie alternative/rinnovabili” e’ il tema del convegno organizzato da Studio Legale Ambiente, che si terrà ad Ecomondo – Sabato, 10 novembre 2012 alle 9.00/13.00 a Rimini -Ecomondo – Key Energy.
Il Convegno tratterà anche il difficile rapporto tra la normativa Nazionale e Regionale e la prevalenza del diritto comunitario.
Buon esempio della prevalenza del diritto Comunitario e’ la recente sentenza del Consiglio di Stato n. 4768/2012 che ha deciso su sentenza del TAR Basilicata di diniego di autorizzazione di impianto eolico.
LA SENTENZA
La Legge Regionale della Basilicata n. 9/2007 e’ in violazione “delle norme internazionali vigenti (protocollo di Kyoto) e comunitarie (articolo 3 direttiva n. 2001/77/Ce), le quali incentivano lo sviluppo delle suddette fonti di energia rinnovabile ed in particolare della direttiva 2001/77/Ce”.
LA LEGGE REGIONALE NON PUÒ FISSARE LIMITI DI PRODUZIONE
Cita la sentenza:” L’interpretazione ora riconosciuta alla normativa varata dalla Regione Basilicata porta innegabilmente alla chiusura del mercato della produzione di energia eolica e ciò, sebbene stabilito con un limite temporale, si manifesta lesivo di importanti e basilari principi caratterizzanti gli ordinamenti europeo ed italiano, in particolare la direttiva già richiamata 2001/77/Ce, secondo cui la produzione di energia anche da fonti rinnovabili avviene in regime di libero mercato concorrenziale senza la previsione di limiti alla produzione.
“…. I regimi di sostegno dei singoli Stati membri devono comunque promuovere efficacemente l’uso delle fonti energetiche rinnovabili – articolo 4 – ed ancor più, soprattutto, andranno ridotti “gli ostacoli normativi e di altro tipo all’aumento della produzione di elettricità da fonti energetiche rinnovabili” – articolo 6.
A fronte di tale quadro di riferimento generale, si deve escludere che il Legislatore nazionale, statale o regionale che sia, possa introdurre un limite massimo alla produzione di energia elettrica rinnovabile, poiché tale limite si dimostra in contrasto radicale con il favor della normativa europea, laddove questa fissa limiti minimi e rivede in generale riduzione degli ostacoli normativi all’aumento della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili….
…Il Dlgs 29 dicembre 2003 n. 387, recante recepimento nell’ordinamento interno della direttiva in parola, ha poi confermato i propositi del legislatore comunitario ed ha previsto inoltre che le Regioni — articolo 10 — possano adottare “misure per promuovere l’aumento del consumo di elettricità da fonti rinnovabili nei rispettivi territori, aggiuntive rispetto a quelle nazionali”, quindi senza incentivare i criteri che potessero portare a stabilire tetti massimi di produzione.
È poi necessario il richiamo alla successiva direttiva 2009/28/Ce che ha sostituito la direttiva 2001/77/Ce, con cui si è tra l’altro precisato nelle premesse – punto 14 – che “la principale finalità di obiettivi nazionali obbligatori e creare certezza per gli investitori nonché stimolare lo sviluppo costante di tecnologie capaci di generare energia a partire da ogni tipo di fonte rinnovabile. Non è opportuno rinviare la decisione sul carattere obbligatorio di un obiettivo in attesa di eventi futuri”.
DISAPPLICAZIONE
….
In conclusione, in accoglimento dell’appello in esame, l’articolo 3 della legge regionale 26 aprile 2007 n. 9 della Regione Basilicata deve essere disapplicato laddove pone un limite massimo alla produzione di energia elettrica derivante da fonte eolica, in quanto contrastante con l’articolo 6 della direttiva 2001/77/Ce con il conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati ..”
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AIA e VIA/biomasse e inceneritore

AIA, VIA e impianti di incenerimento
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 4 maggio – 17 ottobre 2012, n. 5299
A cura di Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente
Il Consiglio di Stato precisa i rapporti tra AIA e VIA e soprattutto indica la differenza spesso dimenticata tra impianto di incenerimento e coincenerimento.
La sentenza e’ articolata ma si selezionano alcuni passaggi importanti e significativi:
RAPPORTI TRA VIA e AIA
Spesso si dimentica la finalità delle due procedure previste dal Dlgs. 152/2006; procedure che dialogano tra loro ma mantengono autonomia.
Cita la sentenza: “….In ordine ai rapporti tra valutazione di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale deve rilevarsi che mentre
-la prima si sostanzia in una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio – economica, tenuto conto anche delle alternativi possibili e dei riflessi sulla c.d. opzione zero (C.d.S., sez. V, 18 aprile 2012, n. 2234; 30 settembre 2009, n. 5893; sez. IV, 5 luglio 2010, n. 4246), investendo propriamente gli aspetti localizzativi e strutturali di un impianto (e più in generale dell’opera da realizzare),
-la seconda, introdotta nel nostro ordinamento in attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento, è atto che sostituisce, con un unico titolo abilitativo, tutti i numerosi titoli che erano invece precedentemente necessari per far funzionare un impianto industriale inquinante (assicurando così efficacia, efficienza, speditezza ed economicità all’azione amministrativa nel giusto contemperamento degli interessi pubblici e privati in gioco) e incide quindi sugli aspetti gestionali dell’impianto.
PROGETTO: ESATTA QUALIFICAZIONE
La questione discussa in sentenza trae origine dalla qualificazione dell’impianto come centrale di produzione elettrica da alimentare con fonti rinnovabili biomasse oppure impianto di incenerimento.
La sentenza precisa: “….Come si evince dal già menzionato Supplemento al Rapporto Istruttorio, la Società….. ha presentato in data 25 gennaio 2008, quale autorità proponente, la domanda di avvio del procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale relativa al progetto di “Ammodernamento tecnologico e interventi di riqualificazione ambientale ed energetica della centrale elettrica di Scarlino da alimentare con fonti rinnovabili (biomasse) e non convenzionali (CDR e CDR-Q)”.
E’ solo rispetto a tale progetto che è stato avviato il relativo procedimento (con relativa pubblicità) ed è rispetto ad esso che, come risulta sempre dal predetto Rapporto, il Comitato d’inchiesta pubblica ha evidenziato (punto 1 e punto 10) che il combustibile da utilizzare previsto nel progetto rendeva l’impianto diverso da quello già esistente, trasformandolo da centrale di energia elettrica in inceneritore: sul punto lo stesso soggetto proponente, già in sede di osservazioni alle valutazioni del Comitato di inchiesta pubblica, ha sostanzialmente ammesso tale situazione, affermando, come riportato testualmente nel Rapporto, che “…la qualifica giuridica dell’impianto (inceneritore/coinceneritore) è irrilevante ai fini della valutazione di impatto ambientale del progetto presentato e non si traduce automaticamente in una omessa valutazione preventiva del progetto derivante dall’impiego dei rifiuti come combustibili.
QUALIFICA IMPIANTO
Continua la sentenza:”…La qualificazione dell’impianto come inceneritore oppure come un coinceneritore rileva esclusivamente in fase di esercizio e, dunque, è una valutazione tipica dell’autorizzazione integrata ambientale, tanto che il D. Lgs. N. 133/2005 impone prescrizioni di esercizio diverse in relazione alle due tipologie di impianti”.
Giova aggiungere che il Rapporto in questione sul punto in esame conclude nel senso che “…considerato che dagli elementi resi disponibili non si evidenzia una prevalenza certa della “funzione principale” dell’impianto nella produzione di energia, si ritiene che detto impianto debba essere qualificato come impianto di incenerimento. La qualificazione è coerente con la documentazione progettuale presentata in sede di VIA che descrive un impianto per il trattamento termico dei rifiuti (CDR). Tale qualificazione fornisce, inoltre, maggiori garanzie di tutela per l’ambiente e per la salute”.
8.2. Sennonché proprio tali conclusioni confermano la correttezza della sentenza impugnata.
Infatti, anche ammesso che nel corso del procedimento il progetto originariamente presentato dalla società Scarlino Energia s.r.l. non sia stato minimamente modificato, non può nondimeno negarsi che esso concerneva (solo) l’ammodernamento tecnologico ed interventi di riqualificazione ambientale ed energetica della centrale elettrica esistente e non già la realizzazione di (o la sua trasformazione in) un inceneritore.
Né è decisiva, diversamente da quanto sostenuto dagli appellanti, la circostanza che la centrale elettrica fosse alimentata con fonti rinnovabili (biomasse) e non convenzionali (CDR o CDR-Q) e che in particolare, essendo il CDR ed il CDR – Q un rifiuto, si fosse evidentemente in presenza di un inceneritore.
E’ sufficiente al riguardo rilevare che la materia dell’incenerimento dei rifiuti è oggetto di una speciale normativa (D. Lgs. 11 maggio 2005, n. 133 “Attuazione della direttiva 2000/76/CE, in materia di incenerimento dei rifiuti, di cui peraltro non vi è traccia di sicura e puntuale osservanza nella fattispecie in esame, non essendo sufficiente a tal fine meri generici riferimenti), dalla quale si evince che costituisce impianto di incenerimento (art. 2, lett. d), “qualsiasi unità o attrezzatura tecnica, fissa o mobile, destinata al trattamento termico dei rifiuti ai fini dello smaltimento, con o senza recupero del calore prodotto dalla combustione” e che costituisce impianto di coincenerimento (art. 2, lett. e) “qualsiasi impianto fisso o mobile, la cui funzione principale consiste nella produzione di energia e di materiali che utilizzano rifiuti come combustibile normale o accessorio o in cui i rifiuti sono sottoposti a trattamento termico ai fini dello smaltimento. L’ultimo periodo della citata lett. e) dell’articolo 2 precisa che “Se il coincenerimento avviene in modo che la funzione principale dell’impianto non consista nella produzione di energia o di materiali, bensì nel trattamento termico dei rifiuti, l’impianto è considerato un impianto di incenerimento ai sensi della lettera d)”.
AMMINISTRAZIONE
Pertanto, l’amministrazione, appurata tale divergenza (che non è meramente formale e non rileva soltanto dal punto di vista terminologico), piuttosto che concludere il procedimento di V.I.A., imponendo prescrizioni ai fini del successivo rilascio dell’A.I.A., avrebbe dovuto invitare la società proponente il progetto a precisare e specificare effettivamente il progetto presentato, chiarendo se esso consisteva effettivamente in un ammodernamento di quello procedente oppure in una trasformazione di quello già esistente in inceneritore, ciò non solo ai fini della correttezza della fase di pubblicità, ma anche al fine di valutare la adeguatezza e la completezza del procedimento di V.I.A. (proprio in ragione della diversità dell’impianto).
Si rinvia alla sentenza

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Mediazione: illegittimità costituzionale!

Mediazione obbligatoria: illegittimità costituzionale!
Segnalazione a cura di Studio Legale Ambiente
Da tempo si attendeva la decisione della Corte Costituzionale sulla questione Mediazione; sulla “conciliazione” che obbligava il cittadino a subire altri costi e sottraeva il contenzioso alle aule giudiziarie solo apparentemente.
Ormai tutto il sistema “legislativo” sembra dimenticare il DIRITTO di difesa; il diritto di dire e contraddire.
Ebbene la Corte costituzionale ha riconosciuto la illegittimità della mediazione obbligatoria prevista dal Dlgs. n. 28/2010.
Comunicazione della Corte costituzionale
 
 

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Delega ambientale: focus

Delega ambientale: Cassazione penale n. 39729/2009
 A cura di Cinzia Silvestri   – Studio legale Ambiente
Accade spesso di travisare la funzione, il contenuto (ed omettere la forma) della “delega ambientale”.
Spesso la dirigenza di un settore ritiene di essere, in forza della propria funzione, il responsabile, il delegato anche “ambientale”; soggetto idoneo dunque a rispondere o meno dell’evento.
La delega  di responsabilità in materia ambientale  è  “cosa seria” .
Si tende ancora a sovrapporre la delega e le funzioni proprie della materia sulla sicurezza (ormai patrimonio di tutti) con la delega in materia ambientale (non codificata).
Inutile suggerire di affrontare la questione separatamente, di tracciare per iscritto compiti e responsabilità trasferite … spesso si trova opposizione nelle stesse società che non capiscono per quale motivo devono “fare qualcosa in più” di quello che esiste già….
Delegare significa attribuire responsabilità che la legge individua in un certo soggetto (legale rappresentante, ad esempio) ad altro soggetto in forza di un atto volontario (contratto, delega).
Il contenuto, la forma di questo “conferimento” è sottoposto a rigido controllo proprio perché “trasferisce responsabilità” (la giurisprudenza ha cesellato il concetto nel tempo con numerose sentenze; vedi anche commento della sottoscritta all’art. 188 Dlgs. 152/2006, Codice dell’Ambiente, Giuffrè ed., 2008).
In materia ambientale la confusione è diffusa a tutti i livelli; difficile far comprendere la necessità di esplicitare nelle dovute forme la delega; quasi impossibile far comprendere che la delega in materia ambientale non coincide con quella in materia di sicurezza e che dunque necessita di precisa indicazione.

Ebbene, utile a comprendere la delicatezza del “trasferimento” di responsabilità è la sentenza della Cassazione penale n. 39729.

La sentenza della Cassazione non riconosce valore alla delega conferita in quanto la stessa non presenta i requisiti idonei per essere ritenuta riferibile alla …materia ambientale.
La Sentenza della Cassazione puntualizza in merito alla commissione del reato ex art. 59 comma 1 (oggi art. 137 Dlgs. 152/2006) da parte di 2 imputati in quanto avevano “effettuato, senza autorizzazione, scarichi di acque reflue industriali, prodotte dalla pulitura delle carrozze dei treni, nel sistema fognario esistente presso la stazione fognaria di (OMISSIS), e, riconosciute ad entrambi le circostanze attenuanti generiche, li condannava alla pena di Euro 1.200,00 di ammenda ciascuno[1].
IL TRIBUNALE
Il Tribunale affrontava l’individuazione dei soggetti responsabili e  riteneva “…..irrilevante che l’attività di lavaggio competesse a Trenitalia, competendo a Rete Ferroviaria Italiane (RFI), società titolare delle strutture costituenti l’insediamento produttivo e quindi della rete fognaria, quantomeno un onere di controllo sull’osservanza della normativa antinquinamento….”.
Il Tribunale concludeva che “….In ordine alla ripartizione di competenze all’interno della RFI rilevava il Tribunale che dagli atti prodotti dalla stessa difesa emergeva che il compito di adeguare la rete fognaria della stazione di (OMISSIS) alla normativa in materia di scarichi era stata assunta dalla Direzione Compartimentale Infrastrutture di Palermo, al cui vertice vi era l’ing. B., il quale, inoltre, con atto in data 1.3.2002 aveva delegato l’ing. Ba. ad assicurare il rispetto della normativa in materia ambientale.
LA CASSAZIONE
“…Il Tribunale è pervenuto all’affermazione della penale responsabilità del Ba., ritenendo che la delega in data 1 marzo 2002 attribuiva al predetto di “assicurare il rispetto della normativa in materia di tutela ambientale, impartendo a tal fine le necessarie diposizioni e vigilando affinchè sia evitato che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l’ambiente esterno”, con “ampia autonomia di spesa nell’ambito del budget concordato”.
La Cassazione invero non concorda con l’affermazione del Tribunale che aveva riconosciuto validità alla delega e prosegue:
“…Dalla mera lettura dell’atto di delega risulta palesemente che il Tribunale ha ritenuto erroneamente che esso riguardasse la gestione degli scarichi fognari della stazione di (OMISSIS). La delega, infatti, riguardava la sola materia antinfortunistica. Già nella intestazione dell’atto si faceva riferimento al D.Lgs. n. 626 del 1994: “Il responsabile dell’unità produttiva Direzione compartimentale Infrastrutture Palermo (Datore di lavoro ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994)”.
Anche con riferimento all’oggetto della delega veniva richiamato espressamente il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. n), secondo cui il datore di lavoro o il suo delegato “prende appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l’ambiente esterno”.
Risulta evidente, quindi, che il riferimento al rispetto della normativa ambientale riguardava, comunque, le misure da adottare in sede di prevenzione antinfortunistica.
Il richiamo della normativa di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, sia nella intestazione che nel “contenuto” della delega, non può generare alcun equivoco o problema interpretativo.
Ritenere che la delega in questione riguardasse la gestione degli scarichi fognari della stazione di (OMISSIS) costituisce, pertanto, palese travisamento della prova.
L’atto di delega delegava al Ba. soltanto la materia antinfortunistica e non certo la gestione degli scarichi fognari.

[1] Rilevava il Tribunale che “dalle risultanze processuali emergeva in modo inequivocabile che i liquidi che confluivano nella “platea di lavaggio” derivavano dall’attività di pulitura delle motrici e delle carrozze dei treni e che gli stessi, attraverso la rete fognaria interna della stazione, confluivano nella fognatura senza che vi fosse alcun sistema di chiarificazione. Non poteva infatti ritenersi sufficiente che tali reflui, annoverabili tra gli scarichi da insediamento industriale, prima di essere immessi nella fognatura, passassero attraverso dei pozzetti (con profondità maggiore rispetto a quelli di entrata e di uscita), in quanto non era prevista alcuna attività di recupero periodica delle particelle più pesanti che andavano a depositarsi sul fondo dei pozzetti più vicini alla platea di lavaggio.
 
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Rifiuti: TAR Veneto 1164/2012

Rifiuti provenienti da terzi fuori Regione/ LRV 3/2000 art. 33 comma 2,3. Illegittimità costituzionale/ Tar Veneto n.1164/2012
 A cura di Cinzia Silvestri – Studio Legale Ambiente
La sentenza del TAR Veneto chiarisce alcune importanti questioni … .
Purtroppo si leggono sentenze che affermano la responsabilità concorrente della Regione in materia di tutela ambientale (senza le dovute distinzioni); purtroppo vengono applicate, dalle stesse amministrazioni, norme regionali ormai abrogate per la intervenuta nuova normativa statale incompatibile.
E cio’ imponendo al cittadino l’onere gravoso di  adire la “giustizia” che, a dire il vero, appare un po’ confusa sull’argomento.
Ebbene la Sentenza del TAR n. 1164/2012  precisa gli effetti della pronuncia della Corte Costituzionale di illegittimità sulla legge regionale; richiama la Regione ai propri obblighi; chiarisce la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela ambientale.
La Questione
La questione  sottoposta al Tribunale Regionale Veneto richiama la controversia insorta tra una società e la Regione Veneto e ricorda la importante e decisiva sentenza della  Corte Costituzionale (25 luglio 2011, n. 244) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale[1] dell’art. 33, comma 2, legge regionale 21 gennaio 2000, n. 3, e l’inammissibilità della questione relativa all’art. 33, comma 3[2].
Le Società ricorrenti presentavano alla Regione domanda di rilascio di un’autorizzazione per la realizzazione di un impianto di smaltimento di rifiuti non pericolosi.
L’impianto avrebbe dovuto ricevere rifiuti provenienti da terzi fuori Regione per il 40% della propria capacità ricettiva, mentre la restante parte dei volumi sarebbe stata utilizzata per i rifiuti prodotti da una delle società. Con DGRV la Regione, esprimeva giudizio di compatibilità ambientale favorevole. Veniva altresì accolta la domanda di rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale.
Il punto 7.3 di tale decreto prescriveva un limite al conferimento di rifiuti da terzi del 25% della capacità ricettiva, da intendersi riferito anche ai rifiuti provenienti da fuori Regione, richiamandosi alle disposizioni dei commi 2 e 3 dell’art. 33 della legge regionale 21 gennaio 2000, n. 3..
In corso di processo la Corte costituzionale dichiarava la illegittimità dell’art. 33 citato e la regione provvedeva in autotutela ad annullare il provvedimento.
Scrive la Corte:  “La disposizione di cui all’art. 33, comma 3, della legge regionale 21 gennaio 2000, n. 3, è stata implicitamente abrogata per incompatibilità con la sopravvenuta norma di cui all’art. 182, comma 3, lett. b), del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152 vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato[3]…”
“La norma regionale prevede che “in attuazione del principio per il quale i rifiuti devono essere smaltiti presso gli impianti appropriati più vicini al luogo di produzione dei rifiuti stessi[4] ….i rifiuti speciali prodotti al di fuori del territorio regionale possono essere smaltiti nelle discariche di cui al comma 1, a condizione che nella Regione nel cui territorio gli stessi sono stati prodotti manchino impianti più vicini adeguati allo smaltimento”.
L’art. 182, comma 3, lett. b, nel testo originario …dispone che lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani non differenziati sono attuati con il ricorso ad una rete integrata ed adeguata di impianti, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili e del rapporto tra i costi e i benefici complessivi, al fine di “permettere lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani indifferenziati in uno degli impianti idonei più vicini ai luoghi di produzione o raccolta, al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti”.
L’esistenza di un rapporto di incompatibilità tra tali norme è stata affermata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 10 del 2009, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di un’analoga norma contenuta nell’art. 3, comma 1, della legge regionale 31 ottobre 2009, n. 29, della Regione Puglia.
…Nel senso dell’abrogazione implicita la Corte Costituzionale n. 74 del 3 giugno 2010, aveva affermato al punto 2.1 che “vanno perciò condivisi gli snodi dell’argomentazione sviluppata dalle ricorrenti a sostegno della tesi della intervenuta abrogazione della norma lesiva di cui all’art. 33, comma 3, esclusivamente nella parte in cui si dispone che lo smaltimento in discarica di rifiuti speciali non pericolosi extraregionali resta subordinato all’avverarsi della condizione suindicata” e tale ricostruzione è stata indirettamente avallata dalla sentenza della Corte Costituzionale 25 luglio 2011, n. 244, che non l’ha contestata.
3. Scrive la Corte: “La Regione nelle proprie difese si limita a proporre… come unico argomento a sostegno della tesi della non avvenuta abrogazione della norma, la tesi secondo cui il contrasto tra la norma statale e quella regionale comporta la vigenza della norma regionale fino a che non si sia pronunciata la Corte Costituzionale.
L’assunto è privo di fondamento.
AMBIENTE COMPETENZA ESCLUSIVA DELLO STATO
Continua con interesse la sentenza “…Lo Stato nella materia della tutela dell’ambiente ha una competenza legislativa di tipo esclusivo ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. s), e pertanto la norma regionale antecedente incompatibile deve ritenersi abrogata dalla sopravvenuta norma legislativa statale, come è precisato dall’art. 1, comma 2, ultimo periodo, della legge 5 giugno 2003, n. 131, per il quale “le disposizioni normative regionali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia”.
“..Pertanto, contrariamente a quanto sostiene la Regione, non vi è alcun elemento che possa essere fondatamente posto a sostegno della tesi della perdurante vigenza dell’art. 33, comma 3, della legge regionale 21 gennaio 2000, n. 3, che è incompatibile con la norma di cui all’art. 182, comma 3, lett. b), del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (nel testo vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato con il ricorso originario; la medesima disposizione è ora riportata, senza soluzione di continuità, all’art. 182 bis, comma 1, lett. b, inserito dall’articolo 9 del Dlgs 3 dicembre 2010, n. 205) emanata dallo Stato successivamente alla norma regionale, in un settore che rientra tra le materie di sua potestà legislativa esclusiva, quale è quello dei rifiuti, che va ricompreso nell’ambito della materia della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.”



[1] Con sentenza n. 244/2011 (G.U. 1ª serie speciale n. 32/2011) la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 33, comma 2, della legge regionale limitatamente alle parole “non superiore al venticinque per cento della capacità ricettiva” per violazione della libertà di iniziativa economica e della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui agli articoli 41 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. La Corte ha dichiarato altresì inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 2 e 3 del medesimo articolo 33 della legge regionale in riferimento agli articoli 3, 41 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
[2] Art. 33 – Norme particolari per le discariche di rifiuti speciali
1 Ferme restando le disposizioni di cui all’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo n. 22/1997, e successive modifiche ed integrazioni, le nuove discariche per rifiuti speciali, diverse da quelle per rifiuti inerti di seconda categoria tipo A ai sensi della deliberazione Comitato Interministeriale del 27 luglio 1984, possono essere realizzate da:
a) soggetti singoli o associati per lo smaltimento dei rifiuti derivati dalle loro attività di produzione di beni ubicate nel territorio regionale;
b) soggetti titolari di attività di trattamento o recupero di rifiuti, ubicati nel territorio regionale, come individuati negli allegati B e C del decreto legislativo n. 22/1997, per lo smaltimento dei rifiuti derivanti dalle loro attività, ad esclusione di coloro che esercitano soltanto le operazioni di cui ai punti D 15 e R 13 dei citati allegati.
2. Nelle discariche di cui al comma 1 è riservata una quota, non superiore al venticinque per cento della capacità ricettiva, per lo smaltimento di rifiuti speciali conferiti da soggetti diversi da quelli indicati al medesimo comma.
3. In attuazione del principio per il quale i rifiuti devono essere smaltiti presso gli impianti appropriati più vicini al luogo di produzione dei rifiuti stessi, previsto dalla direttiva 91/156/CE e dal decreto legislativo n. 22/1997, i rifiuti speciali prodotti al di fuori del territorio regionale possono essere smaltiti nelle discariche di cui al comma 1, a condizione che nella Regione nel cui territorio gli stessi sono stati prodotti manchino impianti più vicini adeguati allo smaltimento. (31)
[3] (ora è all’art. 182 bis, comma 1, lett. b inserito dall’articolo 9 del Dlgs 3 dicembre 2010, n. 205)
[4] previsto dalla direttiva 91/156/CE e dal decreto legislativo n. 22/1997,
adminRifiuti: TAR Veneto 1164/2012
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Trasporto in conto terzi e proprio: La Cassazione chiarisce

Trasporto in conto terzi ed in conto proprio: la Cassazione n. 13725/2012 …chiarisce
A cura di avv. Cinzia Silvestri e dott. Dario Giardi
La sentenza n. 13725 del 31 luglio 2012, della Corte di Cassazione ha affrontato il tema della legittimità del provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti di un soggetto che, ancorché privo del titolo abilitativo per lo svolgimento di attività di “trasporto per conto proprio”, è tuttavia in possesso del titolo abilitativo per lo svolgimento dell’attività di “trasporto per conto terzi”.
L’impiego privato dei mezzi di trasporto dotati di licenza conto terzi è sempre stata ritenuta vietata dalla legge stante la netta differenza tra trasporto conto terzi e conto proprio.
le sanzioni previste sono pesanti perché la legge 298/1974 prevede anche 4130 euro di multa oltre al fermo del veicolo per tre mesi. Ma solo se il trasporto avviene con un mezzo di peso superiore a 6 tonnellate.
Nel caso esaminato dal collegio un autotrasportatore munito di licenza conto terzi è stato sanzionato e si è rivolto con successo al giudice di pace evidenziando l’illegittimità della multa.
Contro l’annullamento del verbale il ministero dell’interno ha proposto ricorso in cassazione ma senza successo.
A parere del collegio anche se per l’esercizio dell’attività di trasporto merci in conto terzi e conto proprio la legge 6 giugno 1974, n. 298 prevede due provvedimenti abilitativi diversi la sanzione e’ illegittima.
I giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno precisato che: “quello relativo al trasporto per conto di terzi ha contenuto più ampio ed è subordinato a condizioni e requisiti più rigorosi. Può quindi essere considerato senz’altro comprensivo anche del trasporto per conto proprio, che rappresenta un minus, sicché risulta ultroneo pretendere che chi ha già ottenuto il titolo “maggiore” si debba munire anche dell’altro, per poter svolgere una attività che l’art. 31 lett. b) della legge citata definisce come «complementare o accessoria nel quadro dell’attività principale”.
In buona sostanza non si può pretendere che un autotrasportatore abilitato al trasporto conto terzi non possa effettuare anche trasporti privati, perlomeno di carattere occasionale.
Studio Legale Ambiente

adminTrasporto in conto terzi e proprio: La Cassazione chiarisce
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Corte di Giustizia Europea/Trattamento Acque reflue urbane

Corte di Giustizia Europea/Trattamento Acque reflue urbane
A cura di avv. Cinzia Silvestri
SENTENZA DELLA CORTE (Settima Sezione) 19 luglio 2012
«Inadempimento di uno Stato – Direttiva 91/271/CEE – Trattamento delle acque reflue urbane – Articoli 3, 4 e 10 – Rete fognaria – Trattamento secondario o equivalente – Impianti di trattamento – Campioni rappresentativi» / causa C565/10,
LA Corte ricorda gli obblighi comunitari allo Stato italiano che risulta inadempiente e viene condannato alle spese.
La Corte prende in considerazione la situazione di molti agglomerati ( principalmente al sud) ma anche in Liguria, Veneto (Vicenza),Trieste (ed altri) non in regola con gli adempimenti imposti dalla direttiva 91/271/CEE.
Tra le righe della sentenza emergono riferimenti utili anche per quegli agglomerati non nominati dalla sentenza; riferimenti dimenticati anche dalle nostre amministrazioni.
Di particolare interesse e’ l’inciso delle Corte ai doveri di progettazione e costruzione di impianti che tengano conto dei diversi flussi turistici estivi e delle maggiori portate conseguenti; nonché il rilievo al numero dei campionamenti annuo, alle variazioni climatiche ecc…
CONTESTO NORMATIVO
La Corte definisce prima il Contesto normativo utile ad inquadrare la contestazione:
“…..2        A termini dell’articolo 1, primo comma, della direttiva 91/271, quest’ultima concerne la raccolta, il trattamento e lo scarico delle acque reflue urbane, nonché il trattamento e lo scarico delle acque reflue originate da taluni settori industriali. Ai sensi del secondo comma del citato articolo 1, tale direttiva ha lo scopo di proteggere l’ambiente dalle ripercussioni negative provocate dagli scarichi di acque reflue.
3        L’articolo 3 della direttiva 91/271 dispone quanto segue:
«1.      Gli Stati membri provvedono affinché tutti gli agglomerati siano provvisti di reti fognarie per le acque reflue urbane,
–        entro il 31 dicembre 2000 per quelli con un numero di abitanti equivalenti (a.e.) superiore a 15 000
(…)
Laddove la realizzazione di una rete fognaria non sia giustificata o perché non presenterebbe vantaggi dal punto di vista ambientale o perché comporterebbe costi eccessivi, occorrerà avvalersi di sistemi individuali o di altri sistemi adeguati che raggiungano lo stesso livello di protezione ambientale.
2.      Le reti fognarie di cui al paragrafo 1 devono soddisfare i requisiti pertinenti dell’allegato I, sezione A. (…)».
4        L’articolo 4 di tale direttiva prevede quanto segue:
«1.      Gli Stati membri provvedono affinché le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte, prima dello scarico, ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente, secondo le seguenti modalità:
–        al più tardi entro il 31 dicembre 2000 per tutti gli scarichi provenienti da agglomerati con oltre 15 000 a.e.
(…)
3.      Gli scarichi provenienti dagli impianti di trattamento delle acque reflue urbane descritti ai paragrafi 1 e 2 devono soddisfare i requisiti pertinenti previsti all’allegato I, sezione B. (…)
4.      Il carico espresso in a.e. va calcolato sulla base del carico medio settimanale massimo in ingresso all’impianto di trattamento nel corso dell’anno escludendo situazioni inconsuete, quali quelle dovute a piogge abbondanti».
5        Ai sensi dell’articolo 10 della citata direttiva:
«Gli Stati membri provvedono affinché la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane realizzati per ottemperare ai requisiti fissati agli articoli da 4 a 7 siano condotte in modo da garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali. La progettazione degli impianti deve tenere conto delle variazioni stagionali di carico».
6        L’allegato I della direttiva 91/271, intitolato «Requisiti relativi alle acque reflue urbane», prevede, alla sezione A, le prescrizioni che devono essere seguite per le reti fognarie e, alla sezione B, quelle applicabili agli scarichi provenienti dagli impianti di trattamento delle acque reflue urbane ed immessi in acque recipienti. Tra queste ultime figura quella in base alla quale la progettazione o la modifica di detti impianti va effettuata in modo da poter prelevare campioni rappresentativi sia delle acque reflue in arrivo sia dei liquami trattati, prima del loro scarico nelle acque recipienti. Per quanto riguarda gli impianti di trattamento la cui dimensione corrisponde a un numero di abitanti equivalenti compreso tra 10 000 e 49 999, la sezione D del suddetto allegato I fissa a 12 il numero minimo annuo di campioni da raccogliere ad intervalli regolari nel corso dell’anno.
GIUDIZIO DELLA CORTE
1) La Corte condanna l’Italia per non aver adempiuto agli obblighi di collettamento fognario entro il termine imposto dalla comunità europea ovvero il 31 dicembre 2000 ovvero in violazione dell’ art. 3 Direttiva 91/271.
“…. Sull’addebito relativo a una violazione dell’articolo 3 della direttiva 91/271…
21      Conformemente all’articolo 3, paragrafo 1, primo comma, primo trattino, della direttiva 91/271, gli agglomerati con un numero di abitanti equivalenti superiore a 15 000 avrebbero dovuto essere provvisti di reti fognarie per le loro acque reflue urbane entro il 31 dicembre 2000…..
….24      Orbene, come riconosciuto dalla stessa Repubblica italiana, occorre rilevare che, alla scadenza del termine impartito nel parere motivato, gli agglomerati di ………non erano provvisti di reti fognarie idonee a raccogliere e convogliare la totalità delle loro acque reflue urbane.
25      Relativamente agli agglomerati di…….., i lavori diretti a dotare detti agglomerati di reti fognarie per le loro acque reflue urbane non erano ultimati.
26      Dalle medesime indicazioni risulta altresì che, ……la raccolta di tutte le acque reflue urbane degli agglomerati di……non era garantita……
30      Ciò considerato, si deve dichiarare che la Repubblica italiana, avendo omesso di prendere le disposizioni necessarie per garantire che gli agglomerati di……….), aventi un numero di abitanti equivalenti superiore a 15 000 e che scaricano in acque recipienti non considerate «aree sensibili» ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 91/271, siano provvisti di reti fognarie per le acque reflue urbane, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 3 della citata direttiva.
TRATTAMENTO SECONDARIO
La corte condanna l’Italia per la violazione  dell’ 4, paragrafo 1, della direttiva 91/271 che prevede che, negli agglomerati con oltre 15 000 a.e., la totalità delle acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie devono, prima dello scarico, essere sottoposte ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente, al più tardi entro il 31 dicembre 2000.
prosegue la sentenza:
“…32      Inoltre, a termini del citato articolo 4, paragrafo 3, tale trattamento secondario o tale trattamento equivalente deve essere garantito mediante impianti di trattamento i cui scarichi soddisfino i requisiti dell’allegato I, sezione B, della direttiva 91/271.
33      Si deve osservare che la Repubblica italiana non contesta che, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, l’obbligo di sottoporre le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente, previsto all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 91/271, non era rispettato negli agglomerati di …..
34      Per quanto attiene agli agglomerati di…….), è sufficiente constatare che, dal momento che tali agglomerati non erano provvisti di reti fognarie idonee a raccogliere e convogliare la totalità delle loro acque reflue urbane, l’obbligo di sottoporre tutti gli scarichi ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente, previsto all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 91/271, non era dunque a fortiori adempiuto (sentenze del 25 ottobre 2007, Commissione/Grecia, C440/06, punto 25, e del 7 maggio 2009, Commissione/Portogallo, C530/07, punto 55).
35      Inoltre, dalle indicazioni fornite dalla Repubblica italiana risulta che, alla scadenza del termine impartito nel parere motivato, gli impianti di trattamento degli agglomerati di ……i quali, conformemente all’articolo 4, paragrafi 1 e 3, della direttiva 91/271, sono diretti ad assicurare il trattamento secondario o il trattamento equivalente della totalità delle acque urbane che confluiscono nelle reti fognarie e a garantire che gli scarichi da essi provenienti soddisfino i requisiti di cui alla sezione B dell’allegato I della medesima direttiva, non erano in funzione.
Numero di campioni annuo
Di particolare interesse la statuizione della corte in merito al numero dei campioni annuo . Campionamento precisato dal legislatore comunitario ed anche italiano e costantemente disatteso anche dalle nostre amministrazioni. L’omissione del campionamento annuo comporta la impossibilita di valutare la conformità del campionamento.
“….36      Con riguardo all’agglomerato di Campobasso 1 (Molise), occorre ricordare che, se è vero che la Commissione, nella memoria di replica, ha ritenuto che non fosse più necessario chiedere la dichiarazione dell’inadempimento dell’articolo 3 della direttiva 91/271, essa ha tuttavia mantenuto il suo addebito relativo a una violazione dell’articolo 4 della medesima direttiva, asserendo che, stando al controricorso della Repubblica italiana e agli allegati allo stesso, il numero annuo di campioni prelevati non corrispondeva al minimo previsto all’allegato I, sezione D, della citata direttiva.
37      Orbene, poiché la Repubblica italiana ha prodotto,….., il numero minimo di campioni che devono essere prelevati ad intervalli regolari nel corso dell’anno, conformemente al suddetto allegato I, sezione D, non occorre dichiarare l’inadempimento dell’articolo 4 della direttiva 91/271 con riguardo al suddetto agglomerato.
38      Per contro, gli scarichi provenienti dall’impianto di trattamento dell’agglomerato di Casarano (Puglia) non possono essere ritenuti conformi al citato articolo 4 a causa dell’insufficiente numero di campioni prelevati. Infatti, la Repubblica italiana non ha fornito alcun campione per il 2009 e il 2010. Inoltre, come precisato da tale Stato membro nel controricorso, l’impianto in parola è entrato in esercizio in una data posteriore a quella della scadenza del termine fissato nel parere motivato.
39      Lo stesso dicasi per gli scarichi provenienti dall’impianto di trattamento dell’agglomerato di Menfi (Sicilia), poiché la Repubblica italiana non ha prodotto campioni relativi a tali scarichi per il 2009.
40      Ciò considerato, si deve dichiarare che la Repubblica italiana, avendo omesso di prendere le disposizioni necessarie per garantire che, negli agglomerati…….. aventi un numero di abitanti equivalenti superiore a 15 000 e che scaricano in acque recipienti non considerate «aree sensibili» ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 91/271, le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 4, paragrafi 1 e 3, della citata direttiva.
PROGETTAZIONE E COSTRUZIONE
Sull’addebito relativo a una violazione dell’articolo 10 della direttiva 91/271
…41      Si deve ricordare che l’articolo 10 della direttiva 91/271 prevede che la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane realizzati per ottemperare ai requisiti fissati agli articoli 47 debbano essere condotte in modo da garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico.
42      Ne consegue che il rispetto dell’obbligo sancito dal citato articolo 10 presuppone in particolare che siano soddisfatti i requisiti di cui all’articolo 4 della direttiva 91/271.
43      Pertanto, il suddetto obbligo non può considerarsi assolto negli agglomerati in cui il trattamento secondario o il trattamento equivalente della totalità delle acque urbane che confluiscono nelle reti fognarie non è garantito mediante impianti di trattamento i cui scarichi soddisfino i requisiti di cui all’allegato I, sezione B, della direttiva 91/271.
44      Ciò considerato, si deve dichiarare che la Repubblica italiana, avendo omesso di prendere le disposizioni necessarie affinché la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane realizzati per ottemperare ai requisiti fissati agli articoli 47 della direttiva 91/271 siano condotte in modo da garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali e affinché la progettazione degli impianti tenga conto delle variazioni stagionali di carico negli agglomerati, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 10 della direttiva 91/271.

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Responsabilità della società solo se esiste vantaggio

Responsabilità della Societa’ solo se esiste vantaggio
Ipotesi di omesso modello organizzativo
Vantaggio e interesse ex art. 5 Dlgs. 231/2001 – Sentenza GUP Tolmezzo
A cura di avv. Cinzia Silvestri
Il caso:
A fronte di un guasto all’impianto elettrico un dipendente, con mansioni di tecnico conduttore, seppure a conoscenza della fallita procedura di messa fuori servizio della linea da 20KV interveniva, con porta del quadro elettrico aperta, nel tentativo di rimuovere gli elementi del quadro Apierre, allentando con chiave fissa quattro bulloni che vincolavano il coperchio del quadro.
A seguito di tale apertura un secondo dipendente “entrava” con il capo nell’armadio contenente il quadro e vi rimaneva folgorato.
Il reato ascritto alla società:
Il Pubblico Ministero chiedeva il rinvio a giudizio anche della società per responsabilità amministrativa da reato dipendente ex artt. 5, 6 e 25 septies co.2 D.Lgs. 231/2001 “perché traeva interesse o vantaggio dal delitto p.e.p. dagli artt. 40, 113 e 589 c.p., commesso in violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro da (omissis) agendo questi in veste di datore di lavoro/dirigente della (omissis), responsabile dell’impianto in forza di procura speciale …avendo la società omesso di adottare ed efficacemente attivare un modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire il reato sopra specificato per difetto di adeguate misure di interdizione all’accesso alla cabina elettrica di cui sopra in presenza di condizioni di pericolo per l’incolumità del personale ivi operante……beneficiando di cd. risparmio di spesa”.
Il Giudice dell’Udienza Preliminare GUP di Tolmezzo 18/12 depositata il 3.2.2012 pronunciava sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. perché “il fatto non sussiste” nei confronti della societa’ imputata ex artt. 5 e 6 D.Lgs. 231/2001 perché:
– non sussiste interesse / vantaggio dal reato dipendente;
– l’ assenza di modello organizzativo non costituisce di per sé reato.
Il ragionamento del GUP:
La responsabilità dell’ente sussiste, ex art. 5 D.Lgs. 231/2001, solo in caso di
– vantaggio o
– interesse
dell’ente tratto dal reato commesso dal dipendente o dal soggetto che riveste una posizione apicale all’interno dello stesso.
Nel caso di specie il Giudice ha ravvisato l’impossibilità di individuare il vantaggio o l’interesse in capo all’agente nel reato di lesioni gravissime, da cui è derivata la morte del dipendente.
Da qui la necessità di una lettura interpretativa del D.Lgs. 231/2001 per poter applicare l’art. 5 D.Lgs 231/01 che altrimenti rimarrebbe inoperativo per i reati colposi di evento.
Afferma il GUP di Tolmezzo, riprendendo una giurisprudenza recente interrogatasi sul medesimo problema, che l’interesse/vantaggio ex art. 5 vadano ricercati non nell’evento (lesione – morte del dipendente), bensì nella condotta che viola le disposizioni a tutela della sicurezza negli ambienti di lavoro (GUP Cagliari 4.7.2011, GUP Novara 26.10.2010, GUP Pinerolo 23.9.2010, Trib. Trani, sez. Molfetta 11.1.2010).
Il vantaggio, infatti, è dato dal risparmio dei costi connessi alla formazione e all’adozione di misure atte a prevenire gli infortuni, oppure nell’omissione di misure per accelerare la produzione e la prestazione aziendale.
Non è quindi sufficiente una semplice imperizia, né la sottovalutazione dei rischi, ma violazioni frutto di esplicite deliberazioni volitive finalisticamente orientate a soddisfare un interesse dell’ente, che il Giudice deve accertare …e il PM provare.
Essendo tale la ratio del D.Lgs. 231/2001, l’assenza del modello organizzativo non costituisce di per se’ motivo di responsabilità, che va invece ricercata nel concreto.
Né tale omissione è ipotesi di reato.
Nel caso di specie era stato accertato che esistevano procedure di sicurezza e sistemi produttivi, non funzionanti per mancata lubrificazione dei meccanismi.
La società, dunque, aveva adottato i sistemi di sicurezza necessari, il cui mancato funzionamento va addebitato non all’ente bensì al personale a ciò incaricato.
Manca quindi il vantaggio dell’ente ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 231/01 poiché la società aveva adottato le misure preventive e di sicurezza.
L’infortunio è stato causato da negligenza e dunque solo le persone fisiche che hanno agito con colpa andranno soggette a pena (per omessa manutenzione nel caso di dipendente, ovvero per omessa vigilanza nel caso del rappresentante legale).

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Tariffa Rifiuti (TIA): obbligo di motivazione

Tariffa Rifiuti (TIA) : la PA deve motivare
Consiglio di Stato n. 539/2012
A cura di Cinzia Silvestri
L’“ampio potere discrezionale dell’ente locale …non può intuitivamente sfuggire a qualsiasi forma di controllo e non può pertanto essere sottratto all’obbligo della motivazione, se non al costo di rinnegare i principi fondamentali di legalità, imparzialità e buon andamento che, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, devono caratterizzare l’azione amministrativa….”
Il Comune deve motivare l’applicazione della tariffa ai massimi consentiti.
Leggi anche articolo “ il cittadino non e’ suddito”
Alcune associazioni di professionisti chiedevano al TAR di Toscana l’annullamento delle delibere del Comune di Prato relative al regolamento per la tariffa Rifiuti.
“.. i ricorrenti sostenevano l’illegittimità della istituzione della tariffa di igiene ambientale per le utenze non domestiche appartenenti alla categoria 11 (uffici, agenzie, studi professionali) nella misura più elevata possibile…… senza alcuna motivazione che giustificassero tale massima imposizione e senza dar minimamente conto dei criteri applicati nell’ambito dei valori minimi e massimi indicati nell’allegato al D.P.R. 27 aprile 1999, n. 158; ciò senza contare che non solo alcun criterio omogeneo risultava seguito per le varie categorie di contribuenti (per alcune delle quali (nn. 1, 4, 13, 17, 18, 19, 20, 21) erano stati applicati i coefficienti minimi e per altre (n. 11) quelli massimi), per quanto la tariffa, secondo la previsione di cui all’articolo 4, terzo comma, del D.P.R. 27 aprile 1999, n. 158, doveva essere differenziata per zone, con riferimento alla destinazione a livello di pianificazione urbanistica e territoriale, alla densità abitativa, alla frequenza e qualità dei servizi da fornire.
LA Corte accoglie la doglianza.
Scrive la Corte:”…L’art. 49 del D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, nel prevedere l’istituzione della tariffa in questione, stabilisce al comma 4 che essa è composta da
una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e
da una quota rapportata
alle quantità di rifiuti,
al servizio fornito, e
all’entità dei costi di gestione,
in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio.
Il successivo comma 5 rimette al Ministro dell’ambiente …., l’elaborazione di un metodo normalizzato per definire le componenti dei costi e determinare la tariffa di riferimento…”
TARIFFA
La tariffa, prosegue la Corte:”…. deve essere articolata per fasce (comma 6) e costituisce la base per la determinazione della tariffa e per orientare e graduare nel tempo gli adeguamenti tariffari derivanti dall’applicazione dello stesso decreto legislativo (comma 7).
Il regolamento per l’elaborazione del metodo normalizzato per la definizione della tariffa di gestione del ciclo dei rifiuti urbani, approvato col già citato d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158, dopo aver precisato all’articolo 2 che “la tariffa di riferimento rappresenta l’insieme dei criteri e delle condizioni che devono essere rispettati per la determinazione della tariffa da parte degli enti locali” (comma 1) e ribadito all’articolo 3, comma 1, che “la tariffa è composta da
una parte fissa, determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e
da una parte variabile, rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione”,
all’articolo 4 (“Articolazione della tariffa) prevede che la tariffa è articolata nelle fasce di utenza domestica e non domestica (comma 1), stabilendo che l’ente locale ripartisce tra le categorie di utenza domestica e non domestica l’insieme dei costi da coprire attraverso la tariffa secondo criteri razionali (assicurando l’agevolazione per l’utenza domestica di cui all’art. 49, comma 10, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22) (comma 2) e aggiungendo che a livello territoriale la tariffa è articolata con riferimento alle caratteristiche delle diverse zone del territorio comunale ed in particolare alla loro destinazione a livello di pianificazione urbanistica e territoriale, alla densità abitativa, alla frequenza e alla qualità dei servizi da fornire, secondo modalità stabilite dal comune (comma 3).
Ai fini del calcolo della tariffa per le utenze domestiche, in particolare, l’articolo 6 stabilisce, al primo comma, che “Per le comunità, per le attività commerciali, industriali, professionali e per le attività produttive in genere, la parte fissa della tariffa è attribuita alla singola utenza sulla base di un coefficiente relativo alla potenziale produzione di rifiuti connessa alla tipologia di attività per unità di superficie assoggettabile a tariffa e determinato dal comune nell’ambito degli intervalli indicati nel punto 4.3. dell’allegato 1 al presente decreto”, e, al secondo comma, che “Per l’attribuzione della parte variabile della tariffa gli enti locali organizzano e strutturano sistemi di misurazione delle quantità di rifiuti effettivamente conferiti dalle singole utenze. Gli enti locali non ancora organizzati applicano un sistema presuntivo, prendendo a riferimento per singola tipologia di attività la produzione annua per mq. ritenuta congrua nell’ambito degli intervalli indicati nel punto 4.4. dell’allegato 1.
4.3.2.2. Alla luce del delineato substrato normativo non può ragionevolmente dubitarsi della sussistenza del vizio di motivazione che, come eccepito dagli appellanti, inficia gli atti impugnati.
Invero, ancorché non possa dubitarsi della natura di atto generale del provvedimento istitutivo della tariffa e del relativo regolamento, non può tuttavia negarsi che esso, proprio in quanto costituisce applicazione concreta anche delle disposizioni contenute nel ricordato d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158, ha un contenuto composito, in parte regolamentare ed in parte provvedimentale, con particolare riferimento a quella parte in cui stabilisce il costo del servizio e la determinazione della tariffa, le modalità di applicazione della tariffa, le agevolazioni e le riduzioni tariffarie, le modalità di riscossione della tariffa, i coefficienti per l’attribuzione della parte fissa e della parte variabile della tariffa.
La determinazione di tali peculiari elementi, che implica, come si ricava dalle richiamate disposizioni, l’individuazione dei costi da coprire, la loro ripartizione tra le categoria di utenza domestica e non domestica, la articolazione della tariffa stessa in ragione delle caratteristiche delle diverse zone del territorio comunali, secondo la loro destinazione urbanistica, è frutto di un ampio potere discrezionale dell’ente locale che non può intuitivamente sfuggire a qualsiasi forma di controllo e non può pertanto essere sottratto all’obbligo della motivazione, se non al costo di rinnegare i principi fondamentali di legalità, imparzialità e buon andamento che, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, devono caratterizzare l’azione amministrativa.
Ma, anche a voler prescindere dalle considerazioni fin qui svolte, un decisivo argomento letterale a conforto della tesi dell’obbligo di motivazione di cui si discute è rintracciabile nelle disposizioni dell’articolo 6 del d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158, che, disciplinando il calcolo della tariffa per le utenze non domestiche, facoltizza i comuni a determinare la parte fissa della tariffa “…nell’ambito degli intervalli indicati nel punto 4.3. dell’allegato 1 al decreto” (comma 1) e quella variabile prendendo a riferimento per singola tipologia di attività la produzione annua per metri quadrati “…ritenuta congrua nell’abito degli intervalli indicati al punto 4.4. dell’allegato 1” (comma 2): invero, proprio il potere di scelta nell’ambito di un intervallo, delimitato da un minimo ed un M., imponeva all’ente locale appellato l’obbligo di motivare le ragioni della scelta dei coefficienti massimi, non essendovi del resto alcun elemento (né essendo stato in alcun modo indicato) negli atti impugnati idoneo a rendere manifesto e comprensibile l’iter logico – giuridico seguito dall’amministrazione e dunque le ragioni della scelta.
È appena il caso di evidenziare che a tale vulnus non potrebbe porsi rimedio in occasione dell’emanazione dei singoli atti impositivi e della loro eventuale impugnazione, dal momento che essi, in quanto meramente applicativi, sfuggono essi stessi all’obbligo e particolareggiato obbligo di motivazione (essendo sufficiente per la loro legittimità il rinvio per relationem proprio all’atto istitutivo della tariffa ed al regolamento di applicazione, di contenuto, come si è visto, composito).
In tali sensi la censura di difetto di motivazione deve essere considerata fondata (ed assorbente anche rispetto alla dedotta carenza di istruttoria)

adminTariffa Rifiuti (TIA): obbligo di motivazione
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P.A. e cittadino: ".. il cittadino non è suddito…"

P.A. e CITTADINO: “..il cittadino non è suddito bensì utente..”.
Tribunale di Venezia n. 2391/2007 –  “Cosa significa agire secondo correttezza ed imparzialità?
 
Segnalazione a cura di avv. Cinzia Silvestri
 
L’attenzione cade sulla sentenza del Tribunale di Venezia del 2007 di particolare attualità, coraggiosa, e che fissa principi forse un po’ dimenticati.
Un esempio di come la magistratura, può ricondurre a giusto equilibrio le azioni ed i diritti e un esempio di merito all’avvocatura che ha avuto la forza di adire la giustizia e chiedere il dovuto ristoro…nonostante tutto.
 
La sentenza del Tribunale risale al 2007 (Tribunale di Venezia – Sezione terza civile – sentenza 19 marzo 23 aprile 2007, n. 2391) – Giudice Stefani.
 
Il Caso coinvolge una coppia di coniugi che si avvaleva di commercialista peraltro condannato  per appropriazione indebita; l’inadempimento del professionista aveva determinato per la coppia l’inizio di una vera tragedia giudiziale, un percorso costoso e grave puntellato di procedimenti penali, tributari ecc….una odissea non imputabile al comportamento dei coniugi.
 
Il pregio della sentenza è di sottolineare il principio costituzionale dell’art. 97 estensibile a ogni attività della Pubblica amministrazione.
L’atto di per se’ legittimo della P.A.  può rivelarsi persecutorio laddove la P.A., pur riconoscendo la estraneità del comportamento censurabile in capo all’utente, non appresti i dovuti rimedi tempestivi per la soluzione della controversia.
 
Ebbene.
 
RESPONSABILITA’ DEL COMMERCIALISTA
Scrive il Tribunale nella indicazione del fatto e con riferimento al percorso subito dalla coppia: “ ….una complessa ed articolata nonché annosa vicenda tributaria, non trascurando vicende penali, peraltro risoltesi con assoluzione e/o con archiviazione, per l’esponente e la di lui consorte; che innumerevoli contestazioni fiscali erano conseguite alla condotta del professionista il quale, a fronte di quanto documentato, ometteva i relativi versamenti; che v’era stato anche lungo contenzioso tributario; che per intervenuta amnistia talune condotte del commercialista erano state dichiarate estinte, con la conseguenza di agire per l’accertamento in sede civile della non imputabilità all’esponente delle contestazioni susseguitesi nel tempo; che aveva ottenuto sentenza di condanna di risarcimento del danno nei confronti del predetto commercialista XXX…”
 
RESPONSABILITA’ P.A.
Il Tribunale però affonda e individua anche la responsabilità della Pubblica amministrazione e precisa , sempre nella descrizione del fatto: “ ….. che esisteva, tanto premesso, responsabilità della P.A. convenuta; che tanto derivava da
omissioni e/o ritardi, con violazione della regola d’imparzialità e correttezza, non trascurando il buon andamento;
che tanto derivava dall’annosità dei procedimenti e relative contestazioni fiscali, con inutile e infondata reiterazione di contestazioni infondate, attesa la sola responsabilità del predetto professionista;
che erano stati chiesti documenti già in possesso dell’Amministrazione, in violazione dell’art. 6 di cui allo statuto 27.7.2000;
che in ogni caso l’Amministrazione era tenuta a risolvere con decisione unitaria la posizione dell’esponente;
che inutili si erano rivelati tentativi di definire definitivamente e in modo bonario il contenzioso tributario; che si erano scontrati con intoppi burocratici e prassi interpretative non coerenti;
che anche dopo la condanna del commercialista l’Amministrazione non aveva provveduto a sgravare gli attori delle comminate sanzioni e interessi;
che la condotta della convenuta costituiva fatto illecito con violazione di diritti soggettivi assoluti e perfetti;
che il danno sofferto poteva essere quantificato in complessive lire 139.000.000; oltre ulteriori lire 89.000.000; non trascurando le spese sostenute, quantificate in lire 20.000.000;
che le vicende di cui sopra avevano arrecato danni anche alla famiglia e alla serenità degli esponenti, sino alla contrazione di patologie del tutto apprezzabili, ebbene agivano per il ristoro del danno sofferto.
 
Il Tribunale nell’affrontare la questione in diritto afferma innazitutto che il caso configura ipotesi di responsabilità extracontrattuale della P.A. nel confronti del contribuente.
E’ ovvio che la condotta materiale in quanto tale, se ed in quanto causa di danno, può essere vagliata.
 
NEL MERITO
Nel merito il Tribunale affonda:
“…..Non si tratta di vagliare la legittimità formale delle condotte degli uffici di volta in volta preposti quanto, piuttosto, di valutare se, note essendo le cause delle vicissitudini degli attori, la cui buona fede non è punto contestata, ebbene dette vicende e/o vicissitudini avrebbero o meno dovuto imporre all’Amministrazione convenuta, complessivamente intesa, certo non trascurando evidenti difficoltà di collegamento tra i singoli uffici, né trascurando la qual certa automaticità dei meccanismi di contestazione fiscale, una condotta, complessivamente, appunto, diversa ovvero alternativa rispetto a quell’attuata.
In fondo la domanda si fonda sul principio costituzionale di buon andamento e d’imparzialità, norma certo precettiva, ed è in quest’ambito che si ritiene di trattare le vicende di causa nella loro complessità ed articolazione.
 
STILLICIDIO DI CONTESTAZIONI
….Si tratta del sostanziale stillicidio di contestazioni, a catena, pervenute con ritardi non indifferenti.
Si tratta ancora, come accennato, di valutare se una volta posta nella condizione di comprendere la peculiarità del caso di specie si potesse esigere da parte dell’Amministrazione convenuta una condotta alternativa.
…..Si ribadisce, dunque, che la posizione attorea, nei limiti quivi esaminabili, il danno sofferto ex art. 2043 c.c., per comportamenti successivi al maggio 1997…..investe la condotta della P.A. complessivamente intesa, e dunque come facente capo al convenuto Ministero e non già alle diramazioni territoriali.
Era esigibile una condotta diversa?
Attesa la nota vicenda che aveva involontariamente investito i contribuenti, cui, in effetti, nessun profilo di colpa può essere mosso, essendosi sempre attivati con dispendio non indifferente d’energie per mettere la parola fine sull’intera questione, ebbene, in base ai citati principi costituzionali, era esigibile una condotta diversa della parte convenuta, in termini di collaborazione, convocazione, complessiva e definitiva valutazione dell’intero annoso iter, piuttosto che una condotta, lecita e formalmente ineccepibile e, in ogni caso, quanto agli aspetti tecnicamente tributari quivi non esaminabili, strettamente, appunto formale.
 
AGIRE CORRETTO E IMPARZIALE
“….Cosa significa agire secondo correttezza ed imparzialità?
Cosa significa agire, nell’esercizio del legittimo potere impositivo e fiscale, nel rapporto con il contribuente, secondo canoni di buona fede?
….Come ricordato gli accertamenti intervenivano in limine.
Certo è legittimo.
Tuttavia, si osserva.
Anche il limite massimo di velocità consentito nelle sedi urbane, 50 chilometri orari, non costituisce la misura in ogni caso consentita: la condotta va sempre parametrata alle condizioni oggettive esistenti.
Non importa rilevare eventuali difetti di collegamento tra i singoli uffici preposti, trattandosi di problema che semmai interessa parte convenuta, non già, e certo, gli attori.
Esistevano le condizioni, sostanziali ed oggettive, in ottemperanza ai principi costituzionali, per offrire agli attori una soluzione, una qualunque, in qualche modo definitiva che, tenendo conto dell’evidente collaborazione ed attenzione degli attori medesimi, ponesse fine alle tribolazioni sofferte?
La risposta è positiva.
Le citate deposizioni vanno apprezzate proprio dal punto di vista ora citato.
Preso atto della (presunta) dolosa condotta del professionista gli attori, lungi dal sottrarsi ad ogni responsabilità, si sono rivolti agli uffici competenti per un chiarimento ovvero chiarimenti in qualche modo definitivi, o quasi.
La continua ricezione, in limine prescrizionale, di cartelle e contestazioni si è risolta, come detto e, di fatto, in uno stillicidio che gli attori oggettivamente non meritavano, essendosi attivati nel senso predetto.
Si tratta, in buona sostanza, di stabilire se la condotta della P.A. convenuta si sia connotata o meno, come doveroso per precetti costituzionali, per buon andamento ovvero, alternativamente, se, quand’anche per ragioni burocratiche e seppure sulla scorta d’atti del tutto legittimi, non sia, invero, tradotta, in fatto, in comportamento, appunto fattuale, irragionevole, contrario all’interesse del contribuente e dei cittadini oggi attori; se, ancora, una vicenda protrattasi per lungo tempo in termini finanche paradossali, dal punto di vista dell’impossibilità di trovare un interlocutore definitivo, non si potesse risolvere alternativamente con sano realismo e correttezza.
Orbene, come anticipato, non pare davvero che la condotta si sia connotata secondo principi di sana e buona amministrazione.
Gli attori, come troppe volte accade, sono divenuti numeri, non più cittadini, e così le cartelle esattoriali che si susseguivano nel tempo, senza mai porre la parola fine sul contenzioso.
Che questa parola, quando e dove, sarà mai posta non rientra nella competenza giurisdizionale del Tribunale.
 
ECCESSIVAMENTE BUROCRATICA
Certamente, tuttavia, il Tribunale può definire la condotta dei singoli uffici come sostanzialmente eccessivamente burocratica e irragionevole: gli attori non sono stati posti nelle condizioni di conoscere come e in che termini, esatti, sanare la propria condizione, hanno ricevuto notizie discordanti, sono stati vittime di prassi applicative cangianti.
Inevitabile?
Certo, la risposta sarebbe positiva, secondo una concezione della P.A. quale ente puro erogatore di servizi ed ente esattore.
Non così secondo l’art. 97 della Costituzione Repubblicana per la quale il cittadino non è suddito bensì utente….”
 
Conclude  il Tribunale e condanna la PA al ristoro del danno esistenziale.

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Appalti: Direttore tecnico/Responsabile tecnico

APPALTI: DIRETTORE TECNICO E RESPONSABILE TECNICO RIFIUTI 

ART. 38 CODICE APPALTI (Dlgs. 163/2006 ss.m.) – Consiglio di Stato n. 2820/2012

A cura di avv. Cinzia Silvestri

Due società partecipavano alla gara per l’aggiudicazione del servizio di ritiro, selezione, trasporto e trattamento di rifiuti urbani ingombranti.

La questione coinvolge la dichiarazione del DIRETTORE TECNICO ex art. 38 comma 1 lett. b) e c) laddove prevede la esclusione dalla partecipazione dalle gare della società, con riferimento a: 

1) “ b) nei cui confronti é pendente procedimento per lʹapplicazione di una delle misure di prevenzione …..o di una delle cause ostative previste dallʹarticolo 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575; lʹesclusione e il divieto operano se la pendenza del procedimento riguarda il titolare o il direttore tecnico, se si tratta di impresa individuale; i soci o il direttore tecnico se si tratta di società in nome collettivo, i soci accomandatari o il direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice, gli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o il direttore tecnico, o il socio unico persona fisica, ovvero il socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società; …

2) c) nei cui confronti é stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dellʹarticolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale; é comunque causa di esclusione la condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione a unʹorganizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati allʹarticolo 45, paragrafo 1, direttiva Ce 2004/18; lʹesclusione e il divieto operano se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore tecnico se si tratta di società in accomanditasemplice; degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o consorzio. …..”

La società interessata dalla esclusione non produceva la dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. 163/06 sostenendo di non essere tenuta alla dichiarazione del Direttore tecnico in quanto:

a) manca nell’organigramma la figura del direttore tecnico;

b) è presente solo il RESPONSABILE TECNICO RIFIUTI, , come previsto per l’iscrizione all’albo dei gestori ambientali;

c) l’art. 38 si riferisce al solo direttore tecnico

DUNQUE  l’obbligo di presentazione della domanda non è dovuto.
Ebbene.

Il TAR rigetta tale ricostruzione e la sentenza viene confermata dal Cons. Stato 2820/2012 in quanto:

il direttore tecnico e il responsabile tecnico sono figure equivalenti, svolgendo compiti e funzioni assimilabili

Ne consegue che anche il responsabile tecnico deve allegare alla domanda di partecipazione alla gara, così come tutte le figure tipiche presenti nell’organigramma di un’impresa di servizi, perché  “pur nominalmente diverse ma a quella (direttore tecnico) sostanzialmente analoghe perché investite di compiti parimenti analoghi rilevanti ai fini dell’esecuzione dell’appalto” (Cons. Stato 83/12, richiamata da Cons. Stato 2027/12).

L’omessa dichiarazione ex art. 38 Codice Appalti preclude la partecipazione alla gara per l’affidamento della gestione dei rifiuti se espressamente richiesta dalla Stazione Appaltante.
Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato è consolidata e si segnala, da ultimo, sentenza 2820 del 17.5.2012.

 L’art. 38 D. Lgs. 163/2006[1] stabilisce i requisiti di idoneità morale che devono essere espressi da tutti i soggetti con funzioni e poteri rappresentativi dell’impresa, a nulla rilevando l’eventuale ripartizione interna di compiti e/o deleghe (Cons. Stato 8535/10 e 1471/2012).

L’omessa presentazione di tale dichiarazione comporta ope legis l’esclusione dalla gara.
A dire il vero parte della Giurisprudenza, ad oggi minoritaria, tende a permettere la partecipazione alle gare pubbliche pur in assenza di dichiarazione, laddove, in concreto, sussistano e siano dunque dimostrabili i requisiti di cui all’art. 38 Codice Appalti.

1. l’art. 45 Direttiva 2004/18 correla “l’esclusione dalla gara alle sole ipotesi di grave colpevolezza e di false dichiarazioni nel fornire informazioni, non rinvenibile nel caso in cui il concorrente non consegua alcun vantaggio in termini competitivi” (Cons. Stato 1017/2010).

2. l’art. 38 comma 1 Codice Appalti esclude dalla partecipazione alle gare pubbliche i soggetti che si trovano nelle condizioni di seguito elencate, mentre la medesima sanzione non è prevista in caso di omessa o incompleta dichiarazione, disciplinata al comma 2 del medesimo articolo.

La mancata allegazione della dichiarazione contenente i requisiti morali configura, dunque, secondo tale impostazione un falso innocuo, da cui non sembra  derivare pregiudizio.

La sentenza Cons. Stato 2820/2012 subordina invece le conseguenze dell’omessa dichiarazione ex art. 38 D.LGs. 163/06 a quanto statuito dalla Stazione Appaltante: il capitolato del contratto, infatti, costituisce legge speciale, che integra il dettato della norma generale.

Laddove la legge speciale preveda espressamente l’esclusione della gara per la mancata osservanza di puntuali prescrizioni su modalità e oggetto delle dichiarazioni da fornire allora la dichiarazione ex art. 38 diventa conditio sine qua non.

 


[1] Art. 38. Requisiti di ordine generale

(art. 45, direttiva 2004/18; art. 75, d.P.R. n. 554/1999; art. 17, d.P.R. n. 34/2000)

1. Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti:

a) che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni;

b) nei cui confronti é pendente procedimento per lʹapplicazione di una delle misure di prevenzione di cui allʹarticolo 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 o di una delle cause ostative previste dallʹarticolo 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575; lʹesclusione e il divieto operano se la pendenza del procedimento riguarda il titolare o il direttore tecnico, se si tratta di impresa individuale; i soci o il direttore tecnico se si tratta di società in nome collettivo, i soci accomandatari o il direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice, gli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o il direttore tecnico, o il socio unico persona fisica, ovvero il socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società; (lettera così modificata dall’art.4, comma 2, lett.b) del DL 13/05/2011 n. 70 in vigore dal 14/05/2011, e ulteriormente modificato dalla legge di conversione 12 luglio 2011, n. 106, in vigore dal 13/07/2011)

c) nei cui confronti é stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dellʹarticolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale; é comunque causa di esclusione la condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione a unʹorganizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati allʹarticolo 45, paragrafo 1, direttiva Ce 2004/18; lʹesclusione e il divieto operano se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore tecnico se si tratta di società in accomanditasemplice; degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o consorzio. In ogni caso lʹesclusione e il divieto operano anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica nellʹanno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, qualora lʹimpresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata; lʹesclusione e il divieto in ogni caso non operano quando il reato é stato depenalizzato ovvero quando é intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato é stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima; (lettera così modificata dall’art.4, comma 2, lett.b) del DL 13/05/2011 n. 70 in vigore dal 14/05/2011, e ulteriormente modificato dalla legge di conversione 12 luglio 2011, n. 106, in vigore dal 13/07/2011)

rovenienza.

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AIA: sanzioni

AIA – prescrizioni e sanzioni
Art. 29 quattordecies Comma 2 Dlgs. 152/06
Cassazione penale n. 2127/2012

A cura di avv. Cinzia Silvestri
Quattro socie vengono condannate alla medesima pena per lo spandimento di liquami zootecnici provenienti da terreno agricolo e aver provocato inquinamento.
Le imputate vengono condannate con riferimento all’ art. 16 comma 2 Dlgs. 59/2005 ovvero per non aver osservato le prescrizioni della AIA o quelle dell’autorità.
La Cassazione si distingue per la corretta applicazione del principio di responsabilità ….laddove sempre più si assiste a condanne che applicano la responsabilità oggettiva e che vengono variamente motivate.
Precisa la Cassazione che la responsabilità penale deve essere accertata con riferimento al grado di contribuzione causale ….
La Cassazione ritiene che non si può attribuire responsabilità sulla base della sola qualifica societaria rivestita.
La Cassazione affronta i seguenti punti:
1)Riconosce continuità normativa tra l’articolo 16 comma 2 del Dlgs. 59/2005 e l’art. 29 quattordecies comma 2 ( Dlgs. 128/2010):
“2. Salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, si applica la sola pena dell’ammenda da 5.000 euro a 26.000 euro nei confronti di colui che pur essendo in possesso dell’autorizzazione integrata ambientale non ne osserva le prescrizioni o quelle imposte dall’autorita’ competente.
2) La sentenza 2127/2012 non condivide la decisione del GIp di Piacenza che aveva condannato le socie senza accertare la effettiva responsabilità’ delle stesse ed anzi  prevedendo condanna sulla sola verifica della qualità di …socie..
Il GIP aveva omesso infatti di “verificare se e chi tra esse avesse uno specifico compito di vigilanza e controllo sulla consistenza e sul grado di imbibizione del terreno agricolo sul quale doveva essere sparso il liquame”.
“Ne’ può ritenersi rispondente ai criteri della logica l’affermazione di responsabilità indifferenziata delle quattro odierne ricorrenti poggiate sul mero dato formale di essere tutte socie con pari potere….”…
La Cassazione afferma che l’irrogazione di sanzione NON è diretta conseguenza della qualifica ricoperta, dovendosi invece accertare, “secondo i canoni della responsabilità”, chi svolga nel concreto, secondo l’organigramma societario, specifici compiti di vigilanza e controllo.
Avverte la Cassazione che la responsabilità indifferenziata porta alla responsabilità oggettiva.
E ciò costituisce violazione del principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 comma 2 Cost.

adminAIA: sanzioni
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Società miste e responsabilità ex Dlgs. n. 231/2001

Società miste e responsabilità amministrativa.

Cassazione penale 26 ottobre 2010 n. 234

A cura di avv. Cinzia Silvestri

La Cassazione penale n. 234/2010 riprende quanto già statuito dalla Cassazione penale 28699/2010 in punto di società miste.

Il caso rileva che la natura di una società quale ente pubblico economico non basta ad escluderla dalla applicazione del Dlgs. 231/2001”…. basando l’esclusione con riferimento allo svolgimento di funzioni pubbliche proprie degli enti territoriali, a seguito del trasferimento da parte dei Comuni della provincia di Enna delle loro funzioni appunto all’A.T.O. Enna”.

Prosegue la sentenza: “Una tale conclusione non può essere condivisa. La ratio dell’esenzione è infatti quella di escludere dall’applicazione delle misure cautelari e delle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 231 del 2001, enti non solo pubblici, ma che svolgano funzioni non economiche, istituzionalemente rilevanti, sotto il profilo dell’assetto costituzionale dello Stato amministrazione.

In questo caso, infatti, …….necessità di evitare la sospensione di funzioni essenziali nel quadro degli equilibri dell’organizzazione costituzionale del Paese.

Nella fattispecie in esame tuttavia proprio la preminente, se non esclusiva, attività di impresa che deve essere riconosciuta alla Società….. non può essere messa in dubbio dallo svolgimento di una attività, che ha sicuramente ricadute indirette su beni costituzionalmente garantiti, quali ad esempio

il diritto alla salute (art. 32 Cost.),

il diritto all’ambiente (art. 9 Cost.),

ma che innanzitutto si caratterizza per una attività e per un servizio che, per statuto, sono impostati su criteri di economicità, ravvisabili nella tendenziale equiparazione tra i costi ed i ricavi, per consentire la totale copertura dei costi della gestione integrata ed integrale del ciclo dei rifiuti.

Non si tratta dunque di avallare un criterio “formale” di applicazione della norma, ma di individuare ……il suo corretto ambito applicativo….”

L’attribuzione di funzioni di rilevanza costituzionale, quali sono riconosciute agli enti pubblici territoriali, come i comuni, non possono …. essere riconosciute a soggetti che hanno la struttura di una società per azioni, in cui la funzione di realizzare un utile economico, è comunque un dato caratterizzante la loro costituzione.

Una conclusione diversa porterebbe all’inaccettabile conclusione, …. di escludere dall’ambito di applicazione della disciplina in esame un numero pressochè illimitato di enti operanti non solo nel settore dello

smaltimento dei rifiuti,

e quindi con attività in cui viene in rilievo, come interesse diffuso, il diritto alla salute e all’ambiente, ma anche là dove viene in rilievo quello all’informazione, alla sicurezza antinfortunistica, all’igiene del lavoro, alla tutela del patrimonio storico e artistico, all’istruzione e alla ricerca scientifica, in sostanza in tutti i casi in cui vengono ad essere coinvolti, seppur indirettamente, dall’attività degli enti interessati, i valori costituzionali di cui alla parte prima della Costituzione …”…

adminSocietà miste e responsabilità ex Dlgs. n. 231/2001
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RIFIUTI: trasporto illecito

RIFIUTI: TRASPORTO ILLECITO
Art. 256 coma 4 Dlgs. 152/2006
Corte di Cassazione – Sentenza 10 maggio 2012, n. 17460
A cura avv. Cinzia Silvestri
La sentenza pone il rilevante dubbio sulla individuazione della mera attività di movimentazione e quella di trasporto in relazione al sito in cui si svolge il deposito temporaneo ed anche con riferimento alle attività svolte sotto l’egida dell’ art. 230.
Pur dovendo fare riferimento al caso specifico trattato -che presenta particolarità – la sentenza suggerisce un ripensamento in concreto delle attività svolte ai fini della corretta applicazione della normativa sui rifiuti.
Il caso:
Veniva disposto il sequestro preventivo di autocarro utilizzato per trasporto di rifiuti speciali (terre, sabbie, sassi, conglomerati cementizi e pezzi di asfalto di varie dimensioni) effettuato senza l’osservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nell’atto abilitativo rilasciato da societa’ proprietaria del veicolo per violazione dell’art. 256 comma 4 Dlgs. 152/2006.
II Tribunale del riesame contesta alla società, regolarmente iscritta all’albo, che il titolo abilitativo “non è esteso al trasporto di rifiuti diversi dalle “terre” ed in esso viene prescritto altresì che il trasporto di queste ultime ……deve essere accompagnato da copia del provvedimento di iscrizione corredata dalla dichiarazione di conformità all’originale resa dal legale rappresentante dell’impresa.
Nella specie, invece, il trasporto effettuato dall’autocarro in sequestro riguardava anche sassi, conglomerati cementizi e pezzi di asfalto di varie dimensioni ed esso non era accompagnato da alcun documento…”.
RIFIUTI DA MANUTENZIONE
Il Tribunale riporta la tesi difensiva volta a inquadrare il trasporto nella attivita’ manutentiva ex art. 266 comma 4 Dlgs. 152/2006.
” Si prospetta in ricorso che l’autocarro sequestrato non stesse effettuando un trasporto di “rifiuti, poiché, ai sensi dell’articolo 266, 4° comma, del Dlgs 152/2006, “I rifiuti provenienti da attività di manutenzione … si considerano prodotti presso la sede o il domicilio del soggetto che svolge tali attività”.
Il materiale trasportato……avrebbe assunto la qualificazione di “rifiuto” solo dopo avere raggiunto il sito dove sarebbe stato legittimamente scaricato in “deposito temporaneo” in quanto si tratterebbe di area di cui la (societa’) avrebbe ottenuto la disponibilità dalla società …(appaltante)…”
Tale collegamento consentirebbe di considerare anche detta area “luogo di produzione dei rifiuti”, poiché essa sarebbe assimilabile alla sede/domicillo della società che materialmente eseguiva i lavori di manutenzione (la cui sede legale era ….. in Brescia).
Art. 230 Dlgs. 152/2006
Risponde il Collegio che “…più pertinente sarebbe stato il richiamo al primo comma dell’articolo 230 del Dlgs 152/2006, ove viene prevista una eccezione alla regola generale del divieto di creazione del deposito temporaneo in luogo diverso da quello di produzione nelle ipotesi non di manutenzione generica bensì di manutenzione specifica di reti ed infrastrutture…”
CONTESTAZIONE
Vero e’ che non si discute nel caso in esame di deposito temporaneo bensi’ “...
di un trasporto di rifiuti, verso il luogo individuato per il deposito temporaneo, senza l’osservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione; sicché, in relazione alla …… violazione dell’articolo 256, 4° comma, del Dlgs 152/2006, non può certo affermarsi che a quelle prescrizioni non dovesse ottemperarsi quando pure il luogo di deposito temporaneo potesse ritenersi legittimamente individuato.
MOVIMENTAZIONE e TRASPORTO
Il Collegio richiama la distinzione tra l’attività di :
“movimentazione”: non necessita di alcuna autorizzazione
“trasporto” dei rifiuti, : rientra nella “gestione” ai sensi dell’articolo 183, comma 1 — lett. n), oggetto di specifica autorizzazione in quanto tale (con la conseguenza che solo dopo l’inizio del deposito temporaneo comincerebbe la gestione dei rifiuti in senso tecnico e l’obbligo di rispettarne regole e prescrizioni).
GESTIONE
Precisa la Corte che “non può affermarsi la decorrenza della gestione dei rifiuti in senso tecnico solo dopo l’inizio del deposito temporaneo:
a) sia perché nulla è dato sapere circa l’effettiva osservanza delle prescrizioni imposte dalla legge per considerare legittima detta forma di deposito;
b) sia perché non vi è stata movimentazione all’interno di uno stesso compendio nel luogo reale di produzione dei rifiuti, bensì trasferimento comportante instradamento da tale luogo a quello giuridico di produzione.
In tale situazione il trasporto in sé va considerato già attività di gestione di rifiuti e per “rifiuto”, ai sensi della normativa comunitaria e nazionale, deve intendersi qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi (o abbia l’intenzlone o l’obbIigo di disfarsi), restando irrilevante se ciò avvenga attraverso lo smaltimento del prodotto ovvero tramite il suo recupero.

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